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La volontà politica eversiva che anima la maggioranza di governo emerge, infatti, in tutta la sua brutalità, dalla lettura attenta delle proposte di modifica già depositate dai parlamentari nelle rispettive camere di appartenenza. Non che questi godano di una indipendenza politica od intellettuale, ma dopo le esternazioni del premier, secondo il quale la Costituzione italiana sarebbe nulla più che "una legge fatta molti anni fa, sotto l’influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla costituzione russa come a un modello", l’assalto è iniziato.
Si va dai leghisti, come il deputato Giacomo Stucchi, che pensa all’autonomia della provincia di Bergamo, al più temerario senatore del Popolo della Libertà, Lucio Malan, che vorrebbe revisionare "l’ordinamento della Repubblica sulla base del principio della divisione dei poteri". Anticipando di un anno il Ministro Brunetta, nel novembre del 2008 Malan proponeva di modificare l’articolo 1, trasformando l’Italia in una Repubblica "fondata sui principi di libertà e responsabilità, sul lavoro e sulla civiltà dei cittadini che la formano". Una Repubblica – così la sogna Malan – dove i senatori a vita non votano, il Presidente del Consiglio non presta giuramento e il governo non ha bisogno della fiducia delle Camere. A questi si aggiunge Davide Caparini che vorrebbe stralciare dal testo dell’articolo 33 quella parte secondo cui la scuola privata vive “senza oneri per lo Stato”.
Il loro meglio però, prevedibilmente, i parlamentari del PdL lo esprimono in materia di giustizia: si contano infatti ben quattro disegni di legge per il ripristino dell’immunità parlamentare e si lavora anche su come semplificare il procedimento legislativo. Una proposta del deputato Giorgio Jannone vorrebbe modificare l’articolo 72 e fare in modo che "non sempre l’assemblea sia chiamata a votare progetti di legge approvandoli articolo per articolo e con votazione finale". Un tentativo forse da interpretare come un servizio al presidente Berlusconi, che già aveva proposto, in una delle sue tante uscite dissennate, di approvare le leggi attraverso il voto dei soli capigruppo. C’è chi poi come Raffaello Vignali vorrebbe addirittura modificare gli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale, supremo organo di garanzia insieme al Presidente della Repubblica dell’ordine costituzionale, rea di essersi messa troppe volte contro gli interessi del Re di Arcore.
Le riforme riguardanti la magistratura sono, ovviamente, tra le più stravaganti. Giuseppe Valentino propone una corte di giustizia disciplinare, Antonio Caruso un’alta corte di giustizia, Gaetano Pecorella, forse stanco di doversi sempre studiare tutte le carte dei molti processi a carico del suo assai munifico cliente, passa invece il suo tempo occupandosi di PM e Procure, immagina una divisione delle carriere sancita dalla stessa Costituzione. Ovviamente proporre una modifica non equivale a modificare, ma quello che tuttavia colpisce – e che traspare palesemente dalle molte proposte già depositate – è la totale ignoranza delle ragioni storiche e politiche che portarono a quello straordinario compromesso ideologico che ha rappresentato, e tuttora rappresenta, la Costituzione italiana del 1948. Una carta unica, che rappresenta un punto fermo nella storia del costituzionalismo europeo e che viene considerata da molti addetti ai lavori come un vero è proprio prodigio giuridico, proprio per quella lungimiranza delle disposizioni che la rendono, ancora oggi a distanza di più di 60 anni, straordinariamente attuale.
La Costituzione del 1948 trovò la sua premessa nella resistenza, nel ripudio dello Stato autoritario e dei suoi dogmi, nella volontà di ripristinare la democrazia e i principi dello Stato di diritto, umiliati durante il ventennio fascista. Sulla base dell’idea liberale che vuole il potere regolato e sottoposto a limiti giuridici per garantire diritti e libertà, storicamente congiunto all’idea democratica, s’innestarono elementi propri delle dottrine delle due ideologie dominanti: quella cristiano sociale e quella socialista. La Costituzione italiana va, infatti, collocata in uno scenario più ampio, addirittura mondiale, traversato da idee e speranze comuni maturate attraverso esperienze tragiche che non si volevano ripetere.
Per questi motivi, nonostante sia corretto, è tuttavia riduttivo vedere nella Costituzione solo il prodotto dell’antifascismo, il rigetto della dittatura come esperienza italiana. La lotta antifascista s’iscrive, infatti, nell’ampio scenario di una guerra mondiale condotta e vinta contro tutti i fascismi, uno scenario dominato dall’intento di costruire un mondo diverso e migliore, che potesse ridare dignità alla persona umana. Il valore della persona era nella cultura comune dei costituenti; tutti, dal primo all’ultimo, siano essi stati comunisti, socialisti, liberali, repubblicani o democristiani. Un’unione di forze, di spiriti e d’intenti che oggi sarebbe impensabile, ma che allora si raggiunse dando alla luce il documento che oggi è alla base dell’unità nazionale. I costituenti erano infatti decisi nell’affermare i diritti non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva dei diritti stessi attraverso l’assicurazione di condizioni esistenziali dignitose.
Accanto alle libertà tradizionali, di pensiero, di espressione, di religione, si affiancavano la libertà dalla paura e dal bisogno. Accanto alla necessità di assicurare teoricamente al cittadino le libertà politiche si sentì la necessità di metterlo in condizione di potersene praticamente servire. Di libertà politica "potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo benessere economico", senza il quale la possibilità di esercitare i propri diritti viene meno.
Così parlava Carlo Rosselli, grande giurista al cui pensiero s’ispirò quel Piero Calamandrei del gruppo autonomista, cui si deve uno dei passaggi forse più importanti della nostra Costituzione: quell’articolo tre comma due, secondo il quale "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese". Continua la lettura di “Ilvio Pannullo – Assalto alla Costituzione”
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Sulla carta, l’operazione di Zuckerberg e soci appare tecnicamente perfetta e soprattutto rispettosa della privacy dei singoli utenti, ma dalla Electronic Frontier Foundation – la più stimata organizzazione no profit nell’ambito della tutela dei diritti civili sul web – arriva un rapporto in cui le innovazioni vengono perlopiù criticate. Secondo gli esperti di San Francisco, infatti, le nuove impostazioni di privacy spingono gli utenti a diffondere nel web i loro contenuti personali: una volta apparso il cosiddetto “transition tool”, il fruitore di Facebook è stato messo davanti al fatto che (di default) tutte le sue informazioni erano visibili a chiunque, e nel caso in cui non si fosse andati personalmente a modificare le impostazioni, i contenuti sarebbero rimasti totalmente accessibili.
A onor del vero, la transizione ha portato una semplificazione significativa dei passaggi per la pianificazione della privacy. Con un’interfaccia più chiara ed intuitiva è ora possibile scegliere, ambito per ambito, cosa far vedere a tutti, solo agli amici oppure agli amici degli amici. In questo modo la privacy sembrerebbe in una botte di ferro: basta un po’ di accortezza ed è possibile schivare il rischio di avere le proprie foto in ambienti o atteggiamenti poco consoni, diffuse su tutto il web.
La questione non è però così semplice. Quando Zuckerberg e soci ci dicono ad esempio che le nostre generalità – ovvero sesso, data di nascita, residenza, lista degli amici e pagine – sono automaticamente visibili nel momento in cui noi facciamo uno di quegli irresistibili test sulla nostra personalità freudiana o parliamo con la nonna di Bari vecchia, si dimenticano di precisare che è proprio da questa nostra gentile concessione che arrivano gli utili della loro azienda. In pratica quei giochini tanto carini sono delle immani miniere d’informazioni su gusti, inclinazioni e comportamenti personali che vanno ad ingrassare le liste di compilazione necessarie a sondaggi e ricerche di mercato di ogni genere e sorta. E com’è ovvio ogni servizio ha un prezzo.
Se a ciò aggiungiamo il fatto che ogni restrizione sulla privacy è una perdita in termini di guadagno per quanto riguarda la probabilità di indicizzazione sui vari motori di ricerca, Google in testa, ben si potrà capire come mai durante la fase di setting delle impostazioni due righe di testo ci suggerissero che “consentire a tutti di vedere le informazioni, faciliterà l’identificazione da parte degli amici”. D’altra parte la concorrenza di una piattaforma come Twitter, in cui tutti i contenuti sono pubblici e di conseguenza indicizzabili da Yahoo e soci, ha un peso sempre maggiore nei bilanci dell’azienda di Zuckerberg.
Ora, il problema non sta tanto nella pubblicazione d’informazioni quali l’istruzione o il luogo di lavoro. I guai cominciano ad arrivare nel momento in cui ragazzini poco meno che adolescenti lasciano, o per buona fede o per pigrizia, le impostazioni di default e rendono pubbliche immagini appetibili ad ogni sorta di maniaco deviato che circoli in rete. Sebbene al momento dell’iscrizione si richieda la maggiore età, su Facebook sono presenti migliaia di studenti delle medie e delle elementari, bambini e ragazzini che si approcciano con curiosità alla rete e vedono in questo sito la via più semplice per creare network interattivi con i propri compagni di scuola, di sport o di vacanze. Sono loro che statisticamente pubblicano più informazioni, sono loro la più grande fonte di guadagno per le ricerche commerciali ma sono anche loro ad essere i più esposti alle minacce che un sistema come il web, anarchico per antonomasia, non può illudersi di combattere né tantomeno eludere.
da: www.altrenotizie.org
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Uno dei bocconi più amari dell’informazione nell’era del web è indubbiamente la diffamazione e la conseguente diffusione esponenziale di contenuti attraverso la pubblicazione in pagine web. La rete, infatti, è un mare dove siti personali e blog sono liberi di spaziare, pubblicare immagini e filmati, creare informazione indipendente, aggregare gli utenti. E pensare che alcuni ancora stanno a discutere sul futuro della carta stampata. Una vicenda sicuramente in tema, che si è conclusa da poco, è quella che ha visto il giornalista, ex direttore de La Padania, Luigi Moncalvo, querelare per diffamazione il blogger Mirko Morini. Morini é stato assolto, per fortuna. La vicenda risale ad alcuni anni fa. Era il 27 giugno 2005 quando il blogger muoveva critiche al limite della satira dalle pagine del suo blog ai danni di Moncalvo. Nell’articolo il blogger riporta con satira pungente il passaggio, se così si può chiamare, del giornalista dalla direzione de La Padania a dirigente televisivo in Rai.
A dirla tutta, come fece il titolare del blog, il giornalista sarebbe stato silurato dal compagno di partito e ora ministro dell’Interno, On. Maroni, a causa di un articolo particolarmente sgradito (a quanto pare) apparso sul quotidiano verde-pianura del nord. Dalla poltrona del quotidiano della Lega Nord, ll giornalista Moncalvo sarebbe così balzato su una poltrona Rai.
Quello che tuttavia è interessante riportare della vicenda – terminata il 5 giugno scorso con il deposito delle motivazioni della sentenza da parte del giudice del Tribunale di Ferrara – sono alcuni spunti di riflessione interessanti. Prima fra tutte la questione dell’effetto diffamatorio: una notizia, un articolo, un video, conoscono con la rete un effetto diffusivo capillare e rapidissimo senza la necessità di investimenti importanti. Chiunque sia dotato di un minimo di cultura informatica e di una connessione ad internet, é potenzialmente e formalmente allo stesso livello in termini di possibilità di raggiungere il pubblico di quanto non sia un quotidiano on line. Da questo punto di vista il contenuto sostanziale del diritto all’informazione, cardine definitivo della democrazia moderna, ha dalla sua uno strumento unico e irripetibile: il web.
Non solo. E’ assolutamente remota la possibilità che un server venga sequestrato e una pagina web oscurata se lo stesso venisse collocato entro in confini di uno stato estero che non avesse con il nostro paese alcun accordo per il perseguimento di reati informatici. E’ in sostanza in questo modo che gli utenti che si trovano in stati totalitari riescono a comunicare con il resto del mondo. Detto questo, va da sé che la questione del perseguimento dei comportamenti diffamatori si muove in fattispecie talmente complicate da diventare lettera morta.
Un altro punto che riempie ulteriormente il contenuto del diritto all’informazione, è sicuramente l’art. 21 della Costituzione, declinato con le opportunità che abbiamo detto. Nel 1947 infatti, la libertà di informazione era un diritto nelle mani di chi controllava stampa e quotidiani: da privilegio di pochi si cercò di renderlo una opportunità per molti.
Inoltre, va da se che la rete ha tutt’altro che la memoria corta. Un articolo che riporta una vicenda giudiziaria di un personaggio politico o altro non viene mai dimenticato né eliminato, restando come una nota indelebile sulla sua reputazione per un tempo indefinibile. La rete non dimentica nulla e tutto resta pubblicato. I motori di ricerca fanno il resto: nell’immenso mare di contenuti e informazioni rendono disponibile una pagina scovandola in pochi secondi. I mezzi d’informazione tradizionali non creavano situazioni di questo tipo. Questa potenzialità, come altre caratteristiche tipiche del web, hanno portato nuovi problemi legislativi da affrontare e non solo in termini di fattispecie applicabile, come per la diffamazione, ma soprattutto per quanto riguarda la possibilità di repressione.
Tra i molti disegni di legge che si susseguono a minacciare la blogosfera, in questi giorni spunta una proposta dell’Onorevole Carolina Lussana, che intende portare alla ribalta il diritto all’oblio. Tale provvedimento vorrebbe rendere applicabile alla rete quel diritto che era così facile si realizzasse da sé, nella realtà dei vecchi mezzi d’informazione. Pensiamo al caso appena riportato che ha riguardato il giornalista Luigi Moncalvo. Oggi, domani e fra cent’anni quella vicenda rimarrà lì pubblicata, nonostante sia una faccenda chiusa per entrambi, per il blogger Mirko Morini come per il giornalista. Bene, la proposta vorrebbe riuscire a normare il diritto all’oblio nell’illusione di riuscire a gestire internet come uno dei vecchi mezzi d’informazione: è evidentemente impossibile.
Per arginare lo spazio illimitato del web e la sua memoria di elefante, l’Onorevole Lussana ha pensato di introdurre l’obbligo di modificare le informazioni già pubblicate. Nella vicenda riportata, in sostanza, il blogger dovrebbe rendere indisponibile il contenuto pubblicato, nonostante non lo imponga la sentenza che invece lo vede assolto dall’accusa di diffamazione.
Per fortuna, questo ed altri rudimentali disegni di legge sono destinati a naufragare nel mare della rete, perché assolutamente non adatti ad intervenire in una realtà non comprimibile. Del resto, se i padri costituenti avessero saputo che nel tempo sarebbe stata la rete a rendere effettivo il contenuto sostanziale di alcuni tra i più importanti diritti sanciti in essa come la libertà d’informazione e di manifestazione del pensiero, avrebbero ampliato e non ridotto i termini dell’art. 21 della Carta. Questi diritti, come altre prerogative (come il diritto alla memoria storica) sono oggi più di ieri alla portata di tutti gli utenti.
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Ma in The millionaire c’è anche il tema classico dell’amore che non conosce spegnimenti, arde come una fiamma per tutta la vita dentro le persone che sono capaci di conservarla accesa. Gli eroi dallo spirito puro, come il protagonista Jamal Malik, rimangono se stessi tra mille peripezie e sono capaci di rischiare tutto per i propri ideali. Danny Boyle anni fa aveva diretto “Trainspotting”, film cinico, spietato, su un gruppo di tossici inglesi totalmente privi di prospettive, ora si è convertito al melodramma di grande respiro. La pellicola si svolge per metà in una baraccopoli di Mumbai, la vita dei due fratelli orfani e della loro amichetta altrettanto miseranda scorre tra momenti duri e tenerezze, in mezzo ad ogni sorta di pericolo. Tutto questo è addizionato con sapienti dosi di ironia, che stemperano la tragicità del racconto. Continua la lettura di “Roberta Foletti – The Millionaire”
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Grida la morte di Eluana. Perché per una volta i principi consumati da analisi e speculazioni sono diventati carne e sangue consegnati a tutti. Senza elitarismi. La coscienza aveva davanti la foto di un sorriso spalancato e accanto la cronaca di un corpo che si sbriciolava come pane dentro a un letto, inchiodato all’immobilità della morte. Una morte strana, che quasi non conoscevamo. Una morte che respira e apre le pupille, che viene alimentata, spostata di fianco, vestita e lavata. Una morte assistita. Una morte tanto strana che per alcuni era vita da difendere senza esitazione. Nelle forme di una battaglia e con le vesti di una milizia, negando ogni ostacolo, fosse anche il pilastro della libertà personale.
Questa è stata la cronaca dei comportamenti fuori controllo delle istituzioni. Reazioni isteriche, spinte oltre lo stile della mediazione e il rispetto della legge. Uno spettacolo – a tratti spietato – di divisione e scontro, e un sipario sceso su riferimenti che credevamo irrinunciabili. E’ stata guerra. Violenza verbale. Divisione di parti e ragioni. Di una verità e di tante. Questo ha dichiarato in una intervista al quotidiano La Repubblica l’ex Presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky. Primo firmatario dell’appello “Rompiamo il silenzio” – che denuncia il caso di una “democrazia in bilico”- mette in fila gli errori metodologici che hanno accompagnato questa storia. Eluana ha mostrato la regressione dell’Italia nel passato remoto. La Chiesa che mette in ombra le conquiste di dottrina del Concilio Vaticano II anteponendo la verità della fede alla compassione familiare. Il Parlamento che preferisce alla voce generale del diritto – che nulla toglie alla libera espressione della singola coscienza – il diktat del dogma. Un clamore viscerale e di principio che si scioglie all’improvviso quando il 31,7% delle sacre famiglie s’incollano su Canale 5 per il Grande Fratello. Quasi otto milioni d’italiani non erano spezzati dalle domande esistenziali, dal Parlamento in alto mare, dalla morte.
Abbiamo assistito a una storia – solo in parte annunciata – di democrazia moderna mangiata a poco a poco. Divorata dai lembi al midollo. Mentre tutto questo accadeva, e solo il Presidente della Camera manteneva un barlume di lucidità, tanti guardavano la spazzatura sceneggiata in reality dando la prova di quanto lavoro nelle comunità e nella famiglia la Chiesa non faccia più da tempo, avendo prudentemente scelto l’opzione del potere e dei troni. Loro non li rovesciano più come recitava il Magnificat della madre del Cristo. Se li riprendono, non partendo dalla conversione e dal catechismo, ma direttamente da Palazzo Chigi.
Dietro alla questione del dogma e del dibattito etico, anzi dentro quella stessa questione, si agita un mostro di ragione e potere. L’etica non si risolve passando per i dogmi della fede. L’etica, una e assoluta, nemmeno esiste. Esistono tante interpretazione dell’etica. Dettate da codici antropologici, ancorate alla tradizioni e ai ruoli, mediate sempre dalla ragionevolezza, se non dalla ragione. Ma sono tante e tutte lecite fintanto che sono governate dalla ragione e non danneggiano gli altri. Lo sforzo che fa uno stato moderno che si dà delle leggi, è quello di rintracciare un fondamento comune che, pulito da vizi di storia e tentazioni particolaristiche, costruisca un comune senso morale. Quello che diventa legge per tutti.
Questa morale ha fatto la storia della filosofia e, per la sfortuna degli assetati di verità, non è un sistema blindato e risolto per sempre. Semplicemente perché la vita umana esiste proprio quando cambia. Quando si adatta e conosce. Quando muta se stessa e sperimenta nuove condizioni dell’esistenza. Su quelle dovremo ragionare ancora. Chiunque sia blindato in confessionale al sicuro da questo, dovrà rassegnarsi. Ciò che si archivia senza possibilità di rivisitazione è morto. E non fa né conoscenza, né giurisprudenza. Fa archeologia e nemmeno più storia.
Questo è Eluana dopo la sua morte. Occorreva una prova evidente della nostra maturità democratica e laica. E se è arrivata – a prezzo di estenuante battaglia – da parte della legge e del diritto, non è arrivata dal nostro Parlamento che, in piena nemesi d’identità, ha iniziato a smascherare se stesso. La sede della politica ha dimenticato quasi con disinvoltura e spontaneità natura e processi del proprio ruolo. Ha perso casa, tradendo il Quirinale e, passando per i calcoli meschini del Presidente del Consiglio atteggiato a paladino di una fede che nemmeno conosce troppo bene, ha perso il proprio centro assimilandosi in toto a quel pietoso avanzo di democrazia cristiana sbagliata che è il nostro centro. Ha mutuato le forme della libertà e la neutralità della legge con i proclami sulla vita. Ha barattato la concezione cattolica della Vita, frutto di una fede e di una precisa religione monoteistica, con la morale universale e il diritto che deve difenderla oltre ogni personale visione della vita e della morte. Ha scelto il contenuto di una fede per abbandonare la formula della neutralità. Il primo passo necessario per un contenuto che sia valido per tutti.
Un errore di metodo che costerà una pietosa strada per tutti noi. Perchè tutti noi faticheremo ancora di più per avere una legge che non ci tratti da fedeli ma da cittadini. Ma è stata una reazione di pancia, almeno per quanti circolano attorno a Berlusconi. Un’azione che tradisce tutta l’immaturità dei nostri politici ad essere democratici nell’anima. Il regime non avanza solo sulla scacchiera del premierato ricercato dal Cavaliere, il regime sta nell’aria di una cultura e di una pericolosa predisposizione mentale.
A questo doveva servire lo Stato e la sua Ragione. A tenere in piedi la vita di tutti, quando il dio in cui credono alcuni chiede di inginocchiarsi tutti alla sua autorità. A tenere la ragione e il dialogo, quando qualcuno invoca il silenzio fatto di timore che viene dalle fede. A lasciare che siano i cittadini a decidere per se, sempre e in ogni condizione. A slegare le persone dalle autorità divine. A pulire le città dalle indulgenze. A bloccare le guerre di religione e a ripristinare l’obbedienza dei tribunali e della pubblica legge. A tenere fuori la verità assoluta che non sia esperibile secondo ragione e a condannare in sede pubblica chiunque imponga la propria agli altri. Sembra la summa di quello che dovrebbe essere accaduto secoli fa, eppure è accaduto ancora. Anzi non è accaduto.
L’epilogo è triste quando guardand
o ai fatti sappiamo bene che Eluana è morta come lei voleva perché la legge, strappando diritti e sentenze alla nostra Costituzione, lo ha permesso. In quel vuoto della politica lei ha trovato la strada. E sappiamo anche che la legge che verrà sul testamento biologico nutrita di questi errori e di queste pesanti amnesie forse non lo permetterà più a nessuno, imponendo ai tribunali di onorare la Vita così come la intendono i cattolici. Questa è l’unica verità pericolosa che si muove dietro le sofisticherie di sondini e dibattiti infiniti. Ci faranno credere di essere liberi, anche liberi da dio. Ma vivremo, faremo figli e moriremo da cattolici. La maggior parte lo farà in modo inconsapevole, incollandosi allo schermo dell’ennesimo Grande Fratello.
Le firme invocate con tanto ardore da Gasparri non saranno quelle dei presunti assassini, ma di coloro che portando dio in Parlamento negheranno a un’altra Eluana la libertà, consegnando a tutti un dio solo più irragionevole con cui non potremo fare granché se non leggi ingiuste per lo Stato e chiese deserte di misericordia. E così, dopo la libertà, avranno tolto anche la consolazione di una preghiera.
da: www.altrenotizie.org
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E’ solo di una domenica fa l’Angelus gridato in cui Benedetto XVI ha parlato della dolce morte come di una risposta sbagliata al dolore. Come si può pensare che un Paese tenuto sotto scacco dal Vaticano possa decidere di legiferare sulla dolce morte, non consegnandola più alla volontà del Creatore e al riscatto del Paradiso? Come si può pensare che si arrivi a questo grado di maturità politica se sul testamento biologico l’accanimento sta nel limitarne il più possibile il senso e l’efficacia, mordendo ai fianchi la libertà dei cittadini sulle proprie vite?
Nel caos di questa corrida di pareri, il Presidente della Camera ha ribadito il valore assoluto del dubbio e quindi la consegna totale della scelta a chi quella vita l’ha generata e ne ha raccolto le volontà e il testamento. Berlusconi ha detto No al decreto. Litiga con le toghe su tutto, non su questo. Ed è quello che ancora meglio dice oggi Sofri dalle pagine di La Repubblica. Ammesso che la letteratura scientifica non abbia un parere unanime, anche se questo a dire il vero significa solo dire che i medici cattolici antepongono ad alcune evidenze scientifiche un concetto della vita che è religioso prima che scientifico e persino umano, esiste un inderogabile principio che vede ciascuno assoluto proprietario di sè, del proprio corpo, del percorso esistenziale che ha vissuto sulla terra. Nulla viene tolto al cielo che ognuno vuole raccontarsi dopo la vita, nulla alla credenze e alla metafisica di una consolazione; ma quaggiù è indispensabile onorare la libertà di tutti su sé stessi e quindi l’autodeterminazione, non consentendo mai che la vita del singolo diventi materia contesa e decisa dalle Istituzioni o dalla Chiesa. Semmai blindare questa libertà con una legge chiara. Che impedisca quello che Beppino Englaro ha vissuto in questi anni. Una via crucis nella quale solo i preti riescono a non ravvisare una spietata disumanità.
Un percorso, quello del padre di Eluana, che intenerisce nel profondo e commuove per la sopportazione lucida e ostinata di una sofferenza che deve essere davvero più grande di ogni umana sopportazione. Con al fianco la mamma di Eluana, ammalata e quasi custodita da suo marito. E poi “Eluanina” – come lui la chiamava – che non c’è più. Strappata alla morte a ogni costo per rimanere attaccata alla terra a vegetare. Senza sentimenti e con un cervello spento che non è in grado di sentire sofferenza. Questo dice l’anestesista Amato del Monte. Eluana è morta 17 anni fa.
E’ la vedova Welby, più di tutti, a ricordare ogni momento il coraggio della scelta di Beppino Englaro. Il desiderio che la volontà di Eluana fosse riconosciuta dalla legge e non avesse le sembianze di una soluzione disperata da consumare in clandestinità e da decorare di compassione in qualche preghiera collettiva. E’ una scelta che parla della vita e della morte con assoluta consapevolezza e senza prigioni della mente. Fondata sulla libertà e sul rispetto. Un modo di leggere l‘esistenza con sacro rispetto, restituendola al suo profondo valore. Quello che ognuno crede giusto.
La legge sul testamento biologico, proprio grazie a questa lunga battaglia, sta andando avanti. Tutta orientata sul modo in cui non considerare alimentazione e idratazione forzata come non-cure, per arrivare al punto di non considerarle accanimento terapeutico e di poter lasciare in stato vegetativo altri morti. Al centro dei lavori sta la ricerca di un modo per ostacolare la scelta e non per regolamentarla. Una risposta, quella delle nostre istituzioni, arretrata, che umilia una storia intera di pensiero e principi. Che umilia questo paese che non è contro la scelta di Beppino Englaro. Lo ricordino i vescovi nelle loro messe deserte. Le stesse messe che condannarono Welby quando rifiutò la ventilazione artificiale e morì. Per Eluana non c’è terapia da interrompere e non c’è più consapevolezza per ribadire la sua volontà. Proprio questo è diventato, a servizio della chiesa e di tanta parte del Parlamento italiano, lo strumento più efficace e più vile per costringere e per negare a una vita di vivere e morire come lei aveva deciso.
Vorremmo che questo momento non fosse aggravato dall’ostinazione quasi grottesca – non fosse così tragica – con cui il nostro Ministro del Welfare è alla ricerca di un escamotage qualsiasi per impedire la fine della morte di Eluana. Un comportamento violento e squalificante per un ministro che non sa riconoscere le competenze e la divisione dei poteri. Un atto che tradisce un radicato disprezzo per la libertà personale e un vuoto imbarazzante di umana pietà. O paura. Fa paura Eluana che ora può morire. Fa paura un padre che sopporta il dolore scevro da ogni egoismo e in totale dedizione della volontà della figlia. Fa paura chiunque parli della vita e della morte, non consegnando la sofferenza e il suo valore ad altra certezza che non sia il significato della propria vita.
Il protocollo è pronto da quasi un mese. Ragionato in ogni minimo passaggio. Eluana sedata e non alimentata e idratata a forza si spegnerà. Insegnando la fatica di una giustizia ottenuta a prezzo di lunghi anni, di accuse e di ostacoli calati dall’alto e dai centri di potere. Sappiamo purtroppo che quelli che oggi versano fiumi di lacrime, si buttano contro l’ambulanza o sostano affranti nelle piazze in protesta, questi stessi sono incapaci di piangere e di avvertire l’ingiustizia profonda di una volontà calpestata, la negazione di una vita per la Vita. A noi piace immaginare senza paradiso il viaggio di Eluana. Libero, come libera sarà lei.
da: Altrenotizie
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Ma non è tutto: i giornalisti che pubblicheranno le intercettazioni saranno puniti con 30 giorni di carcere o con una multa dai duemila ai diecimila euro, mentre le vocine che ai giornalisti offrono il materiale non vengono citate; in più, dall’elenco dei reati intercettabili sono stati depennati l’insider trading e l’aggiotaggio, quei reati da mezze calzette che hanno fatto scoppiare i casi Parmalat e Cirio, che non si sa mai cosa riserva il futuro per chi specula in Borsa. A onor del vero, si potranno però intercettare tutti i reati con pene superiori ai cinque anni – invece che i dieci invocati a gran voce da Padron’ Silvio – più alcune eccezioni come la pedopornografia, il contrabbando, i delitti contro la pubblica amministrazione e i reati concernenti droga e armi. Intercettabili poi anche i reati d’ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria e stalking.
L’Associazione Nazionale Magistrati insorge: “Con queste modifiche s’indebolisce uno strumento investigativo indispensabile per individuare i responsabili di gravi delitti”. Ma la Cassazione, aprendo l’anno giudiziario, si dimostra più morbida e, in apparente accordo con i progetti del guardasigilli, sottolinea con il primo presidente Vincenzo Carbone, la volontà di istituire un “utile archivio riservato delle intercettazioni, che sia accessibile solo al pm e all’avvocato”. Crediamo tutti nella buona fede del nostro giovane ministro, che già ha espresso la sua più totale abnegazione nella causa di modernizzazione e perfezionamento della giustizia italiana, ma lo scandalo strillato in questi giorni dalle colonne di maggiori quotidiani ci spinge a dubitare sulle reali intenzioni di via Arenula.
Lo scalpore è stato provocato dalla presunta esistenza dell’archivio segreto di un certo Gioacchino Genchi, un consulente giudiziario richiestissimo per la sua capacità di incrociare i tabulati telefonici. Secondo le cornacchie della stampa mainstream, Genchi avrebbe collezionato una quantità inimmaginabile di dati in cui, a detta de il Giornale (di regime), “alla fine tutti conoscono tutti e tutti sono accusabili di tutto”. Quello che però si dimentica di dire è che i contatti telefonici di cui il fantomatico esperto è in possesso sono stati acquisiti non per libera iniziativa dell’interessato, ma bensì su richiesta delle procure nell’ambito di due particolari inchieste giudiziarie, “Why not” e “Poseidone”, che tanto sembrano urticare la nostra limpidissima élite politica.
A deporre a favore di Genchi – ma probabilmente è proprio questo il punto – c’è il fatto che i suoi incroci telefonici hanno permesso di catturare e assicurare alla giustizia gli esecutori della strage di via D’Amelio, oltre che a scoprire che le utenze di molti malavitosi calabresi erano intestate a un parlamentare nazionale. Lo stesso Genchi ha poi elaborato, sempre su sollecitazione delle procure distrettuali, i dati che hanno portato all’istruzione dei più importanti processi di collusione tra politica e mafia, Dell’Utri e Cuffaro compresi. L’abuso delle intercettazioni è certamente una colpa grave, ma sembra che il concorso tra Genchi e De Magistris rimandi a scenari più delicati.
Dateci pure dei paranoici ma la relazione, come usava dire il buon Maurizio Crozza alla fine del suo show, non è chiara. Salvatore Borsellino, fratello del defunto giudice, ha provato a spiegarlo durante la scorsa manifestazione promossa in favore delle vittime della mafia, ma si è preferito riportare solo l’abituale sproloquio di Di Pietro sulla letargia costituzionale del nostro capo di Stato. Il perché di questa concomitanza all’interno dell’informazione nostrana ci sembra invece chiarissimo.
da: Altrenotizie
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da: www.altrenotizie.org
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Un caso chiuso per la giustizia italiana che lascia aperti parecchi interrogativi circa le tante, troppe incongruenze: dalla perizia che concluse che il colpo venne sparato verso l’alto e i rimbalzi fortuiti, all’autopsia secondo la quale il passaggio del Defender per due volte sul suo corpo non avrebbe procurato lesioni mortali a Carlo. Un caso inquietante, paradossale che ha sconvolto l’Italia intera e soprattutto ha riaperto vecchie
ferite e consolidato storiche divisioni sociali.
La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha dichiarato “ricevibile” il ricorso presentato il 18 giugno 2002 dai genitori e dalla sorella di Carlo e deciderà nel merito del caso entro pochi mesi. Le sentenze della Corte di Strasburgo sono direttamente applicabili negli Stati membri.
L’istanza invoca l’articolo 2 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo che sancisce il diritto alla vita. In particolare la famiglia Giuliani sostiene che la morte di Carlo sia stata causata da un “uso eccessivo della forza” da parte delle forze dell’ordine, in considerazione anche del fatto che “l’organizzazione delle operazioni per ristabilire l’ordine pubblico non siano state adeguate”. I motivi del ricorso riguardano anche l’assenza di soccorsi adeguati e immediati per i quali deducono la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione che si riferiscono in sostanza al divieto di trattamenti inumani. Continua la lettura di “Carlo Giuliani: a Strasburgo per trovare giustizia – di Cinzia Frassi”
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L’Unione – sottolinea Amnesty – ”non può continuare a ignorare la difficile situazione in cui si trovano migliaia di cittadini” che vivono in un ”limbo giuridico o aspettano un indennizzo dalle autorità slovene” perché private dei propri ”diritti più fondamentali”.
Amnesty International rinnova così il suo appello a Bruxelles contro le discriminazioni cui sono sottoposti i Rom ed altre minoranze. Esattamente 15 anni fa, solo qualche mese dopo la dichiarazione di indipendenza, ricorda l’organizzazione umanitaria, le autorità slovene ”presero la decisione straordinaria che da allora è stata condannata dalle più alte corti del Paese, dall’Onu e dal Consiglio d’Europa: la rimozione di oltre 18.000 persone, soprattutto di origine Rom, dal registro dei residenti permanenti”. Continua la lettura di “Guerra ai ROM: il volto razzista della Slovenia – di Elena Ferrara”
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Le ultime settimane in Israele sono passate sotto il segno di continui scandali politici, che hanno completamente eroso la credibilità del governo Olmert. Le incriminazioni del Capo dello Stato, del Ministro dell’Interno, del Capo della Polizia e gli scontri sulle responsabilità della disastrosa guerra libanese scandiscono impietosamente l’agonia di un sistema politico in profonda crisi. Mentre l’opinione pubblica si sposta nuovamente a destra e ritornano sulla scena Netanyahu e Barak e il tycoon Gaydamak, una sorta di Berlusconi israeliano. In questo panorama desolante, la morsa di ferro dell’esercito sui Territori Occupati si fa sempre più spietata e il meeting tra Abbas e Olmert si chiude con un nulla di fatto, ripescando però dal cappello il piano di pace della Lega Araba. Parlando con la gente per la strada, al bar, nei luoghi di lavoro, l’opinione è unanime: si tratta del periodo più difficile e drammatico nella storia dello stato ebraico, stretto tra le minacce nucleari iraniane e la corruzione dilagante in patria. Si comincia persino a far strada l’idea strampalata che il terreno fertile per la corruzione sia l’Occupazione, ed in particolare il sistema di amministrazione militare dei Territori, che da quarant’anni come un cancro infetta tutto l’apparato statale.
La fiducia nel sistema politico, nell’esercito e più in generale nelle istituzioni ha toccato il minimo storico. I recenti sondaggi non lasciano alcun dubbio al riguardo: la popolarità del premier israeliano Olmert è scesa al 3 per cento e il Ministro della Difesa Peretz, che rappresentava le speranze ormai naufragate del popolo pacifista, si attesta su un desolante 1 per cento di consensi. Ma ecco tornare in pista nomi che preferivamo non dover incontrare più: dopo anni di basso profilo in attesa del momento giusto, gli ex premier Barak e Netanyahu sono ora in testa ai sondaggi, subito davanti al leader fascistoide filorusso Lieberman. Come accadde in Italia all’inizio degli anni novanta, in questo momento di crisi si affaccia sulla scena anche l’uomo della provvidenza, nelle vesti di Arkady Gaydamak, un tycoon di origini russe. Ricercato dalla polizia francese per traffico d’armi, Gaydamak è popolarissimo in Israele dopo aver sborsato milioni di tasca propria per aiutare le famiglie del Nord durante la guerra in Libano, in aperta polemica con Olmert, il cui governo non è riuscito a proteggerle adeguatamente dai Katyusha. Gaydamak è sceso in campo, riscuotendo un discreto consenso, anche se non ha ancora deciso se schierarsi con Lieberman o Netanyahu: in ogni caso cavalcando l’ondata autoritaria che si profila all’orizzonte. Continua la lettura di “La crisi israeliana e l’agonia di Olmert – di Elle Emme”
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Continua a pesare sull’intera Europa l’ombra della guerra nel Kosovo. Perché dalla capitale austriaca – dove serbi e albanesi si trovano a confronto con l’inviato delle Nazioni Unite, il finlandese Martti Ahtisaari – le notizie non sono buone. I negoziati, infatti, continuano a correre su binari diversi. Non si intravedono processi validi per un compromesso capace di pacificare la provincia. L’Onu insiste per un autogoverno della maggioranza albanese, pur se con forti garanzie per la minoranza serba; i kosovari-albanesi, invece, si battono per ottenere l’indipendenza e divenire i padroni della terra considerandosi come discendenti degli Illiri, autoctoni prima dell’arrivo di Slavi, Cristiani ed Islamici
I serbi, dal canto loro, continuano a considerare il Kosovo come parte irrinunciabile della Serbia e pongono l’accento sul fatto che a rovinare la situazione locale è stata la Nato quando, nel 1999, attaccò la Jugoslavia di Milosevic, riducendo il Kosovo ad un suo protettorato, dove è ancora presente una forza di interposizione di circa 16.000 uomini. E sempre i serbi – che sono i padroni di casa dal momento che il Kosovo è ancorato a Belgrado – fanno rilevare che le proposte delle Nazioni Unite potrebbero essere accettate solo se inserite nel quadro di una “autonomia sostanziale, ma sempre all’interno della Serbia”. Continua la lettura di “Rai: le idi di marzo – di Sara Nicoli”