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Qualcuno mi ha chiesto che cosa io pensi della condanna definitiva, ormai passata in giudicato, inflitta dalla Corte di Cassazione a una docente di scuola media (scusate, io continuo a dire “scuola media” e non “scuola superiore di primo grado”) che aveva fatto scrivere cento volte a un alunno la frase “sono un deficiente” (però, pare, senza la “i”), per essersi approfittato della debolezza di un compagno di classe. In breve, per aver usato la prevaricazione e aver commesso un atto di cosiddetto “bullismo”.
Volevo tacere in merito, perché non mi diverto (più) a parlare di scuola. Ma di questa storia avevo già parlato nel 2006, quando la docente fu incriminata e, successivamente, quando arrivò la sentenza di primo grado in cui fu assolta dalle accuse.
In questi giorni la Cassazione ha definitivamente sentenziato che la professoressa è colpevole e condannata a 15 giorni di reclusione. Reclusione che non sconterà mai, potendo usufruire dell’indulto e, naturalmente, data l’esiguità della pena comminata, della sospensione condizionale della pena.
Si possono dire tante cose. Ad esempio ci si può chiedere quali siano gli strumenti che gli insegnanti hanno a disposizione per proteggere gli allievi più deboli dalle vessazioni dei prepotenti, di quelli che chiamano “Jonathan” un bambino solo perché ha atteggiamenti un po’ effemminati. Intanto, per esempio, non si obbliga il bulletto di turno a scrivere cento volte una frase che contiene un vero e proprio autoinsulto (anche se va detto che l’insegnante aveva precedentemente spiegato al bambino che “deficiente” è colui che è manchevole di qualcosa, ma dovrebbe spiegarlo anche al senso comune, che legge in questa parola un giudizio sulle sue facoltà mentali).
Voglio dire, si trovano altri metodi. Si può, burocraticamente, annotare sul registro e riferire tutto al dirigente. Magari per scritto. Poi, se il dirigente non convoca chi di dovere e le sanzioni non vengono applicate, a quel punto non è più colpa dell’insegnante.
Quella della “nota sul registro” è mera burocrazia, nient’altro che questo. Ma anche la burocrazia ha un suo perché, non è solo scartoffie. Perché è vero che i “provvedimenti” (soprattutto per un fatto così grave) non li prende certo il singolo docente, ma sono sempre affidati a un organo collegiale.
L’insegnante ha voluto fare un po’ di giustizia sommaria, applicare il principio dell'”occhio per occhio”, perché visto che un ragazzino debole era stato umiliato, allora che si umìli anche il bulletto. E non funziona così, che diàmine, non funziona così. Non funzionava così nemmeno ai tempi del codice di Hammurabi.
Intanto però l’insegnante, oggi 60enne, è andata in pensione. Ha evitato il procedimento disciplinare e un eventuale licenziamento e NON mi risulta sia stata interdetta dai pubblici uffici, circostanza di cui nessuno ha parlato. Si è detta amareggiata della sentenza, questo è umanamente comprensibile. Ma se fosse successo a un suo collega più giovane in età o in servizio le conseguenze avrebbero potuto essere ben più pesanti.
Questa vicenda non è la dimostrazione del fatto che i bulli hanno sempre ragione, ma, casomai, del fatto che gli atti di soverchiante prepotenza e di temporanea dimostrazione di chi detiene il potere non pagano, chiunque sia a metterli in atto.
E ora, per favore, parliamo d’altro.
Io gli avrei fatto scrivere “sono un merdone assassino” (cit.), altro che.
Ai miei tempi quando un insegnante ti riprendeva avevi torto. Punto. Se un insegnante arrivava a farti scrivere che sei un deficiente, c’era fiducia nel fatto che aveva buoni motivi per farlo.
Ora no. Ora se un bimbo ne vessa un altro c’è perfino da trovarsi denunciati se lo si difende. Incomprensibile.
Si, c’è la nota sul registro, l’organo collegiale, la comunicazione scritta al preside, blablabla. Boiate. Boiate da gente che vuole pararsi il culo nascondendosi dietro il “eh, ma c’è la procedura”.
Quell’insegnante ha più palle del 50% del corpo docente italiano, e che sia stata condannata mi brucia.
P.S. se la parola “boiate” ti risulta offensiva censura pure, eh.