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Era armato solo di una chitarra, di un pregevole finger-picking, di un’erre moscia a tratti imbarazzante, e di una poetica invidiabile e superiore, per sintesi ed efficacia, a quella di vari cantautori italiani decisamente più conclamati e acclamati.
Ovvio che un personaggio del genere non se lo filasse nessuno.
Ebbe, questo è vero, un certo successo con una canzone presentata a Sanremo e che si intitolava “…e allora senti cosa fo’“.
Ma per tutti Stefano Rosso era il poeta della “storia disonesta“, della ragazza giusta che ci sta, dello spinello e degli amici, del letto 26 da cui, malati di coscienza, si aspetta chi non torna più, dei baci e dell’acne giovanile regalati al primo amore.
E’ per questo che non fu mai annoverato tra i cantautori della scuola romana tradizionale (De Gregori, Venditti, Baglioni, Cocciante), lontano com’era dalle dolci Veneri di rimmel, dalle Lilly senza capelli e da quel piccolo grande amore. Lui, Stefano, ora sì che ci manca da morire.