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Il diritto di critica è espressione diretta di quel diritto alla libertà di parola sancito dalla Costituzione.
Nessuno può essere esente dal diritto di esprimere una posizione critica, così come nessuno può essere esentato dall’essere oggetto (reale o potenziale) della critica stessa.
Diritto di critica non è diritto di diffamazione, anche se troppo spesso “critica” e “diffamazione” vengono confuse in un mix pericolosissimo.
E il diritto di critica non può, a maggior ragione, non riguardare atti, discorsi, pronunciamenti, dichiarazioni alla stampa e aspetti contenutistici di quello che fa il Quirinale, sia nella dimensione della Presidenza della Repubblica come istituzione, sia in quella del Presidente della Repubblica come persona.
Per il semplice fatto che non possono esistere nulla e nessuno, che non siano di un qualche pubblico interesse, su cui non si possa parlare. Esiste, questo è certo, il reato di vilipendio al Capo dello Stato. Ma stiamo parlando di diritti, non di reati (e di reati di opinione si tratterebbe).
Ora, quello della critica è l’esercizio di un’opinione. E le opinioni devono restare ben distinte dai fatti e dai dati che le hanno generate. Ma sono perfettamente legittime.
Ora, le intercettazioni telefoniche che riguardano l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino e alcuni funzionari del Quirinale, effettuate nell’ambito dell’inchiesta dei rapporti tra Stato e mafia, e pubblicate sulla stampa nazionale, sono dei fatti, dei documenti, che hanno un contenuto proprio, avulso da quelle che sono le conclusioni personali, pure legittime, che ognuno di noi può farsi leggendoli.
E i fatti parlano, dicono. Non sono inerti, hanno un valore. Nei documenti può anche non sussistere nessun elemento utile a definire illecita una certa condotta, ma non si può nemmeno impedire alla gente di farsi un’opinione proprio da quei fatti, perché una cosa è dire che quei fatti non contengono o non possono far configurare una ipotesi di reato (e a questo penserà la magistratura), un conto è dire che quei fatti, ancorché inattaccabili sotto il profilo giudiziario, non possano, in astratto e in concreto, destare preoccupazione nell’opinione pubblica per i risvolti morali ed etici che li riguardano.
E un’osservazione macroscopica può essere fatta anche subito: un privato cittadino, il cui nome fosse iscritto nel registro degli indagati, con l’ipotesi di reato di falsa testimonianza non avrebbe certo la possibilità di chiamare i collaboratori del Quirinale per parlare del suo caso. E se anche l’avesse gli verrebbe risposto “si difenda in tribunale, ci sono tre gradi di giudizio, vedrà che avrà tutto il modo e il tempo per far valere le sue ragioni”.
Quindi, come minimo, ma proprio come minimo, c’è qualcosa di anomalo nelle modalità comunicative che riguardano le persone sottoposte ad indagine.
Non importa che siano stati “il Fatto Quotidiano”, piuttosto che “Repubblica” a pubblicare quei contenuti. Io posso anche avere in estrema antipatia Travaglio, Padellaro, Mauro e quant’altri, ma una cosa è l’antipatia personale e altra cosa è la veridicità o meno di quello che leggo. Per cui o i documenti sono falsi (e allora Travagio, Padellaro, Mauro e chiunque altro li abbia pubblicati dovrebbero cercarsi un altro mestiere domani mattina) o i documenti sono veri. Non c’è e non è possibile una terza ipotesi.
Quello che resta è un Quirinale in ombra e una singolare e tempestiva accelerazione sull’approvazione del decreto intercettazioni, che conserva ancora integra la norma cosiddetta “ammazzablog”, di cui non parla più nessuno (tranne, forse, Wikipedia). Se dovranno essere i magistrati a stabilire di volta in volta cosa sia pubblicabile (e quindi di pubblico interesse) e cosa no, vuol dire che saranno i magistrati a prendere il posto dei giornalisti.
Stiamo andando verso la deriva dei diritti e di quello stesso stato di diritto che si discioglie come neve al sole di Scipione l’Africano.