Il delitto di via Poma e la morte di Simonetta Cesaroni: tre uomini e un morso

 413 total views,  1 views today

C’è un senso di disgusto che sfugge, evidentemente, anche a chi legge, sempre più distrattamente, dei casi di malagiustizia, dell’accanimento giudiziario vòlto più a trovare UN colpevole, piuttosto che IL colpevole.

E soprattutto nel caso di Simonetta Cesaroni, la vittima del “delitto di Via Poma” di 22 anni fa, pare sempre di più che l’addebito della responsabilità di un omicidio dipenda ora da un articolo indeterminativo, ora da un articolo determinativo.

Troppo poco per convincere l’opinione pubblica che parole altisonanti come “avviso di garanzia”, “obbligatorietà dell’azione penale”, “diritti dell’imputato”, “presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva passata in giudicato” e, soprattutto “atto dovuto”.

Già, perché è tutto un “atto dovuto”. E’stato un atto dovuto indagare il povero Pietrino Vanacore, che, evidentemente, deve aver considerato un atto dovuto togliersi dalle grinfie della vita, considerato che la giustizia non smetteva di togliere le grinfie su di lui.
Pietrino Vanacore era indubbiamente colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Era colpevole di non aver commesso i fatti per cui è stato accusato. Era colpevole di non aver ammazzato Simonetta Cesaroni. E come si è permesso? Non si può mica, sapete… Se si viene accusati di un delitto qualsiasi, non può essere che un sospetto, o anche solo una condanna di primo e di secondo grado debbano valere meno di zero, no, uno deve essere colpevole PER FORZA, perché se no si dimostra che non si riesce a venire a capo di un “caso” di omicidio senza individuare l’assassino con l’articolo determinativo.

E allora se non è stato Pietrino Vanacore qualcun altro deve essere stato per forza. L’ex fidanzato, per esempio, quel Brusco, che già uno che si chiama così dovrebbe dare fastidio per default all’opinione pubblica (perché, mi raccomando, un sando lombrosismo di maniera non ce lo dobbiamo mai far mancare) che è stato indagato dopo 20 anni dalla prima volta in cui è uscito dalle indagini (purtroppo per lui senza una sentenza definitiva passata in giudicato, perché grazie al “ne bis in idem” avrebbe potuto evitarsi questo calvario) perché, anche lui, come osa essere innocente, ecco fatto, una bella condanna a 24 anni di reclusione in primo grado, prova regina un morso rinvenuto sul seno della vittima che è risultato perfettamente compatibile con l’arcata dentaria particolare dell’imputato.

E’ roba che distrugge la vita di una persona. Come fa una persona a resistere a una pressione del genere? Come fa la moglie di un imputato a non farsi venire almeno un dubbio? E magari uno resta solo, e quando viene dichiarato innocente è riabilitato agli occhi della giustizia (non a quelli della società, perché, si sa, se è stato indagato “qualcosa deve aver fatto per forza”) ma non ha più una vita da vivere.

Perché adesso si scopre che gli incaricati di redigere una superperizia per la corte d’assise d’appello che dovrà gestire il procedimento di secondo grado a carico di Raniero Brusco hanno scoperto che quel morso potrebbe NON essere un morso, e che, comunque, è compatibile con qualunque cosa o azione possibile, e che il DNA sul corpetto della vittima apparterrebbe ad almeno TRE persone di sesso maschile.

Cazzo, non è poco. Non è una roba che ci metti sopra il due di briscola al massimo. E’ roba che scagiona un innocente da una accusa ingiusta. Una accusa ingiusta per cui, si badi bene, nessuno pagherà mai, né chiederà mai scusa. L’azione era obbligatoria, l’imputato era garantito, è stato efficacemente (anche se sfortunatamente, guardando alla sentenza di primo grado) difeso, ha opposto le sue ragioni (ma che diàvolo di ragioni vuoi opporre se sei imputato ingiustamente di un reato che non hai commesso? Fai silenzio perché non hai parole…), e comunque non è mai stato tratto in arresto (ci mancherebbe anche altro, adesso, di mettersi ad arrestare gli innocenti), e anche se è stato condannato in primo grado ha avuto altri due gradi di giudizio per far valere le sue ragioni (il guaio è che anche la procura e parte civile fanno valere le proprie ragioni).

E’ la cultura del sospetto che prevale sulla cultura della prova provata, è la logica della vita sputtanata per sempre quando una superperizia parla di “tracce non attribuibili”. Non se ne può più.
Ora, se uno ha un sospetto su qualcuno deve dimostrarne la fondatezza. Non è l’imputato che deve dimostrare la propria innocenza. E se una persona viene condannata su un dato che non esiste, o che non è un dato, o che non è compatibile, o che riesce a scagionarlo è segno che il sistema sta andando in tilt, che la verità oggettiva non esiste, che esiste solo la verità processuale che non è più “verità” neanche quella.

In Italia continuiamo a parlare inutilmente della responsabilità civile dei magistrati che dovrebbe essere un dato di cultura giuridica acquisito da decenni. E poi la gente muore di morte civile, di morte giudiziaria. Muore perché qualcuno ha detto e scritto cose che intanto stanno lì a gravare sul cittadino e poi qualcun altro ci penserà. Finché ci penserà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.