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Gioco di parole della catena austriaca di McDonalds che propone un panino “all’italiana” in una linea di prodotti in promozione denominata “Italian Summer” (estate italiana) e definendolo una specialità “Per veri Mamphiosi”, giocando sul significato del verbo tedesco “mampfen” (ovvero mangiare smodatamente, velocemente, divorare, o magari anche “sbafare”) e l’assonanza con la parola italiana “mafiosi” (assunta ormai a valore di internazionalismo) ben conosciuta anche a un parlante di lingua tedesca.
Divertentino come un riccio nelle mutande, nevvero?
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Non mi sono mai occupato di calcio sul mio blog. Potrebbe essere questa l’occasione per cominciare. Un tifoso del Cagliari, durante l’incontro con la Fiorentina, è stato còlto da infarto mentre si trovava con la madre e la sorella sugli spalti a tifare la sua squadra. A un certo punto, com’è e come non è, gli ultrà della Fiorentina hanno cominciato a urlargli contro “devi morire!”, proprio nella partita che era stata interrotta attorno al 15′ del primo tempo per ricordare Astori, il capitano della loro squadra, morto prematuramente lo scorso anno. Poi risulta che alla fine il tifoso cagliaritano che doveva morire è morto sul serio e questa è la fase più triste di una storiaccia che si svolge nella quotidianità di un contesto di tifo sconsiderato e a-sportivo, dove la gara di 22 omini in mutande che corrono dietro a un pallone cercando di infilarlo nella porta avversaria diventa ben più importante di una vita umana che si spegne, e in cui l’appartenenza di campanile la fa da padrona su qualsiasi sentimento di pietà umana e/o cristiana (per chi ci crede). Schifo, ohibò…
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Nel mese di luglio 2017, sul social network Twitter, nel contesto di una discussione cui partecipava anche il giornalista Guglielmo Pepe, Roberto Burioni ha scritto la frase “un giornalista che racconta balle senza basi scientifiche danneggia la società e tradisce la sua professione, ha morti sulla coscienza”
Guglielmo Pepe ha querelato Burioni. La querela stava per “morire” con una richiesta di archiviazione da parte del Pubblico Ministero, ma la settimana scorsa è giunta una lettera di scuse da parte di Burioni, a seguito della quale Pepe ha rimesso la querela.
Sono stato aggressivo, ma nell’ambito del clima di accesa discussione su temi estremamente rilevanti dal punto di vista sociale, scrive Burioni.
Fin qui i fatti e parte del documento di scuse (peraltro ampiamente disponibile in rete) che rende senz’altro onore al prof. Burioni, anche se fa rimanere dei dubbi sulle dinamiche del procedimento. Il Pubblico Ministero a cui era stata proposta la denuncia-querela di Guglielmo Pepe aveva proposto l’archiviazione della stessa. Archiviazione a cui lo stesso Pepe si era opposto, dando così il via alla procedura processuale. Visto che il processo aveva ottime possibilità di concludersi con una archiviazione, e, quindi, per Burioni, con un nulla di fatto, non si capisce perché il virologo si sia affrettato a scrivere una lettera di scuse per un fatto che, con ogni probabilità non sussisteva (la frase suppostamente diffamatoria era stata rivolta a una generalità indefinita di persone, non a Guglielmo Pepe). Probabilmente gli avvocati si saranno trovati d’accordo su questa strategia difensiva per Burioni e di tutela per Pepe, fatto sta che il dubbio rimane, e ci si chiede se questa lettera di scuse non sia anche una ammissione implicita di una responsabilità, non foss’altro che quella di aver agito frettolosamente e avere avuto il dovere di essere più chiaro. Insomma, il dubbio che resta è che la parte soccombente sia proprio Burioni e che Pepe ne esca con un risultato insperato. E sì, Burioni bisogna che in futuro se ne stia più attentino ad attribuire morti sulla coscienza a chicchessia.
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Ecco, ve ne sarete accorti tutti che quando si va in farmacia con la ricettina bella pronta e firmata in mano la prima cosa che la farmacista (generalmente giovane e carina, con lo sguardo inconsapevole) ci chiede è: “Le do l’originale o preferisce il generico?” E tutti, soprattutto i vecchietti, normalmente rispondono: “No, no, niente generici, io voglio l’originale!” La sciacquetta carina e gentile prova a ribattere: “Guardi che con l’originale paga tot euro di ticket, mentre con il generico non paga nulla”. E il vecchietto di turno la massacra: “Non me ne importa nulla, mi dia l’originale, il generico non lo voglio.” Oppure, se quella di turno è una vecchietta, guarderà la bambinella con occhio di superiorità e dirà: “Mi dia quello che c’è scritto sulla ricetta”. E sulla ricetta generalmente è sempre indicata la specialità medicinale griffata.
Il motivo di tanta diffidenza non è che il generico sia un farmaco di serie B, un po’ come la cola del discount rispetto alla Coca-Cola e alla Pepsi ufficiali, no, il punto è che per noi il generico è inefficace e in un certo senso, non fa lo stesso effetto. Ma se è lo stesso principio attivo! Magari possono cambiare gli eccipienti, ma quello che del farmaco fa effetto è la stessa esatta identica molecola del farmaco di marca.
Ricordo il caso di mia nonna, l’Angiolina buonanima (di cui non vi parlo da anni, ormai). Per dormire meglio la notte e contrastare l’ansia che la opprimeva le avevano prescritto delle compresse di diazepam. L’effetto fu deleterio. Mia nonna la notte si agitava moltissimo e praticamente ballava sul letto. Riconsultato il medico, la tranquillizzò e le prescrisse lo stesso dosaggio di diazepam, sotto forma di gocce al gusto di limone (quindi molto gradevoli al palato). Il farmaco (che non era esattamente un generico, ma una specialità medicinale con un altro nome) fece effetto e mia nonna stava da Dio. Aveva preso esattamente la stessa cosa.
Una molecola è una molecola. Non ha nessun marchio se non quello del “copyright” che dopo 20 anni dal deposito scade. E’ per questo che esistono i generici. Che costano meno e sono ugualmente efficaci.
Siamo fatti di chimica, e una molecola è una molecola, sia che me la produca l’azienda di grido che ci ha messo il brevetto, sia che la produca chi immette sul mercato solo farmaci generici, e allora perché non approfittarne? Perché siamo malfidati, ecco perché. Pensiamo sempre che ci sia qualcuno pronto a fregarci con qualche intruglietto, che se costa meno deve anche valere di meno, quindi in quanto a efficacia lascerà probabilmente a desiderare.
Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro.
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PROCURA DELLA REPUBBLICA
PRESSO IL TRIBUNALE DI TORINO
Su modalità e tempistica di comunicazione del Ministro dell’Interno in relazione ad “operazioni in corso”
COMUNICATO STAMPA (Torino, 4 dicembre 2018)
All’inizio della mattinata odierna il Ministro dell’Interno ha diffuso un tweet in cui, facendo seguito ad altro precedente afferma “…non solo, anche a Torino altri 15 mafiosi nigeriani sono stati fermati dalla Polizia” facendo seguire riferimenti ad arresti avvenuti altrove.
In relazione ai soli fatti di Torino, il Procuratore della Repubblica osserva che, al di là delle modalità di diffusione, la notizia in questione:
La diffusione della notizia contraddice prassi e direttive vigenti nel Circondario di Torino secondo cui gli organi di Polizia Giudiziaria che vi operano concordano contenuti, modalità e tempi della diffusione delle notizie di interesse pubblico, allo scopo di fornire informazioni ispirate a criteri di sobrietà e di rispetto dei diritti e delle garanzie spettanti agli indagati per qualsiasi reato.
Ci si augura che, per il futuro, il Ministro dell’Interno eviti comunicazioni simili a quella sopra richiamata o voglia quanto meno informarsi sulla relativa tempistica al fine di evitare rischi di danni alle indagini in corso, così rispettando le prerogative dei titolari dell’azione penale in ordine alla diffusione delle relative notizie.
Allo stato non si ritiene di poter fornire altre informazioni sulle indagini in corso.
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FACCIO SUBITO UNA PREMESSA: David Puente è stato oggetto, nei giorni scorsi, di un attacco vile senza nessuna giustificazione. Qualcuno (si occuperà la magistratura di individuarlo) ha diffuso una notizia falsa, in cui si afferma che il debunker sarebbe stato oggetto di una perquisizione domiciliare alla ricerca di materiale pedopornografico. Si fa riferimento anche alle origini (vere o supposte) ebraiche del blogger. Il tutto con il logo e il marchio del quotidiano “la Repubblica”, quasi a voler dare una sorta di parvenza di autorevolezza alla vigliaccata in questione. Queste sono cose da condannare senza appello. Per quanto mi riguarda continuerò a criticare Puente per quello che fa, che dice e che scrive. Non mi interessano né le sue preferenze sessuali, né la sua provenienza etnica, né la sua fede religiosa.
E ORA COMINCIAMO. David Puente è stato nominato da Enrico Mentana come primo (in ordine di tempo) collaboratore del nuovo giornale on line del giornalista de La7. Che non esiste (ancora). Ma, intanto, la notizia ha creato unanime consenso nel mondo di certi radical-chic di sinistra che hanno subito battuto le manine ed esaltato la scelta. Ora, io non so se David Puente sia iscritto all’albo dei giornalisti o meno, ma questo è il requisito fondamentale che mi aspetto da un qualsiasi collaboratore di una qualsiasi testata, on line o cartacea che sia. Finché uno fa il blogger per conto suo (e io ne so qualcosa) può scrivere quello che gli pare. Ma quando si va a scrivere per un giornale ci sono requisiti che non sono di per sé indispensabili (non ho detto che l’essere iscritto all’albo dei giornalisti sia la conditio sine qua non della collaborazione di Puente con Mentana, ma che me lo aspetto, così come mi aspetto che la farmacista che gestisce il negozio che mi vende l’Aspirina sia laureata in farmacia) ma che rendono il sito ricco di autorevolezza (e non di “autorità”).
Fatto sta che per il momento David Puente è stato nominato collaboratore di un bel niente, visto che il sito non c’è ancora. Arriverà? Sarà a giorni? A settimane? A mesi? Ma oggi come oggi non c’è. Inutile applaudire il niente.
Come niente fu quella nomina pubblicizzata in pompa magna da parte della Boldrini nella task force del quadriumvirato di ricerca sulle fake news con il marchio della Camera dei Deputati. Ci fu un linguaggio estremamente pomposo nell’annunciare l’iniziativa. Ho ritrovato in rete il virgolettato:
“Sono in contatto con esperti, i cosiddetti debunker: – ha spiegato la presidente durante un incontro con la stampa – il debunking è l’attività che smaschera le bufale” attraverso una verifica attenta e puntuale sulle fonti e sulla trasmissione della notizia. ”Sono Paolo Attivissimo (Il Disinformatico), Michelangelo Coltelli (Bufale un tanto al chilo), David Puente (Davidpuente.it) e Walter Quattrociocchi del CSSLab dell’IMT di Lucca e consegneremo l’appello ai grandi social network che devono essere seri”.
Ma poi cos’hanno fatto? Sono andati in giro per le scuole italiane a sensibilizzare i giovani studenti? Hanno creato qualche sito di informazione vera oltre a quel Basta Bufale che raccoglie solo firme e che è stato abbandonato sul web a far scorrerere a video una serie (in)finita di testimonial? Hanno tenuto conferenze e incontri (più di uno, voglio dire) alla Camera dei Deputati per sensibilizzare l’opinione pubblica, i giornali (rei, secondo il mangiatore di amatriciana Paolo Attivissimo, di essere le prime fonti di diffusione delle notizie fasulle), i media sul pericolo della diffusione delle “bufale” (termine orrendo ma a loro piace tanto)? Anzi, ci risulta che il sito “Bufale un tanto al chilo” sia stato oggetto di sequestro preventivo per una accusa per diffamazione. La risposta è caduta nel vento, come dice una orrenda traduzione cattolica di Bob Dylan.
E poi sono curioso di vedere che cosa tireranno fuori un collaboratore che “silenzia” i suoi contatti su Twitter e un direttore che dà del “coglione” al cronista dell’agenzia Dire, aggiungendo l’epiteto “sparapalle” solo perché il cronista in questione aveva avuto l’ardire di chiedergli se “Il suo editore di La7, Urbano Cairo, sarà anche quello del suo giornale online?” (se avete voglia di saperne di più leggete qui).
Much ado about nothing.
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L’altro giorno sono andato a fare la spesa al supermercato, e mentre aspettavo il mio turno, con una fila da emporio dell’ex Unione Sovietica, per comprare un po’ di pane e un paio di mozzarelle, l’altoparlante ha diffuso una canzonetta di Jovanotti che si autocompiace del fatto che sia estate (chissà poi cosa ci trovi di così bello…), che sente il mare dentro a una conchiglia e come ciliegina sulla torta di tutto il discorso ti dice anche che la liberà è un battito di ciglia. Ora, io non ce l’ho con nessuno, ma ci sono persone in Italia che per far la rima conchiglia/ciglia darebbero a bere anche l’impossibile. Un battito di ciglia è un gesto semplice, elementare. E la libertà è tutt’altro che facile a conseguirsi. La si raggiunge ogni giorno e con una tremenda e sovrumana fatica. Perché le cose vere ed autentiche costano fatica, e per Jovanotti sembra sempre essere tutto facile, maledizione, invece la vita è dannatamente complicata, ed essere liberi è un esercizio che costa uno sforzo enorme. Poi mi è venuto in mente che c’è stato quell’altro cantautore, Gaber, che cantava che “libertà è partecipazione”, dopo avere enumerato tutto quello che la libertà non è, tra cui il volo di un moscone, e va beh. Ma la libertà non è nemmeno partecipazione. Tanta gente ha partecipato alle elezioni politiche scorse con la speranza di poter essere, alla fine, un po’ più libera, e ne è uscita più prigioniera e reclusa di prima (col governo che ci ritroviamo non si scherza!). Nossignori, niente partecipazione e niente battito di ciglia, la libertà è la conoscenza. E solo quella. Se non hai la conoscenza non solo non sai un cazzo, ma, soprattutto, non SEI un cazzo. Se hai la conoscenza puoi condurre una vita dignitosa, se non ce l’hai sprofondi nel nulla. La conoscenza non è il numero di nozioni che un individuo possiede. Quello è enciclopedismo e lasciamolo a quei simpaticoni dei wikipediani che fanno le cose perché ci credono tanto, la conoscenza non è sapere quando è morto Napoleone, ma sapere come e dove andarlo correttamente a cercare nel caso si dovesse avere bisogno di quella specifica informazione. E poi leggere. Leggere tanto. Leggere sempre. Non importa che grado di studi si sia raggiunto nella vita, se vai a letto e spegni subito la luce non avrai aggiunto un mattone che sia uno a quello che conosci e che sai, se leggi un libro (naturalmente dipende tutto anche da CHE libro leggi) ci stai già lavorando. Sapere, conoscere, imparare. Credo che nella vita non ci sia altro. E la conosceza può portrare tranquillamente alla follia o alla depressione più nere, ma una vita senza conoscenza non vale nemmeno un pochino la pena di essere vissuta come tale. Tutto può essere conoscenza, dalle cose che più ci piacciono a quelle più noiose, l’importante non è questo, ma come ci si arriva, e cioè facendosi un culo come una manica di cappotto. Per intenderci, la conoscenza non è un copia-incolla: facile, lesto, pulito. La conoscenza è andarsi a cercare i libri in biblioteca o a casa, quelli che parlano di quel determinato argomento e cercare informazioni su informazioni. Non vale se qualcun altro lo fa per te, perché la conoscenza è personale. Per cui, non date retta a Jovanotti, e i battiti di ciglia riservateli alle coe che più vi dànno stupore. C’è bisogno anche di quello!
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Certo che questo è un governo strano. Ogni volta che qualcuno dei suoi componenti viene coinvolto in una qualche inchiesta giornalistica o in una rivelazione dello stesso tenore, ricorre subito allo strumento (vecchio, ma sempre temerario) della querela. Sono le classiche formule di rito a farla da padrone: “Se ne occuperanno i miei legali” “Ho già dato mandato ai miei avvocati” “Chiederò lumi ai giudici di merito”.
Era già capitato settimane or sono al ministro Madia, che si era vista attribuire un bel tot di citazioni dalla sua tesi di dottorato ad altri autori precedenti, senza che queste citazioni venissero corredate dalle opportune citazioni, virgolettate come si deve, o comunque inserite in un contesto di cotale prestigio in modo che si capisse, anche solo attraverso una lettura di pura fruizione, dove finiva la citazione e dove cominciava il discorso originale di Madia. Qualcuno ha parlato di “plagio”. Di certo c’è che l’accusa portata avanti dal “Fatto Quotidiano” è stata corredata da una serie considerevole di slides in cui i testi di provenienza e di destinazione venivano messi a confronto e le concordanze (! -toh, poi c’è sempre qualcuno che mi chiede a che cosa servono…-) delle due fonti risultavano più che evidenti. Insomma, c’erano elementi oggettivi a sostegno di quella che era l’accusa. Naturalmente nessuna risposta, né dall’interessata né dal suo entourage universitario, nel merito di quanto contestato. Semplicemente la solita dichiarazione di avere intenzione di rivolgersi alla giustizia (civile? penale??) e il discorso si chiude lì, anche perché la pletora dei quotidiani di regime non ha minimamente reagito alla rivelazione riprendendo la notizia o stigmatizzando un possibile comportamento, seh, non sia mai, guai ai vinti e viandare.
Accade ora che la componente del governo (chè ministro non lo è più) Maria Etruria Boschi viene additata a pagina 209 del libro “Poteri forti (o quasi)” di Ferruccio De Bortoli di essersi adoperata, da ministro, presso Unicredit Banca dell’acquisizione di Banca Etruria, di cui era vicepresidente il padre e in cui lavoravano il fratello e la cognata. Circostanza smentita solo da lei. Nemmeno il suo mentore Matteo Renzi l’ha difesa espressamente, limitandosi a dire, in una intervista sul “Foglio”, che Ferruccio De Bortoli ce l’avrebbe con lui per non si sa quale non ben meglio specificato motivo (e quindi avrebbe utilizzato l’arma della vendetta trasversale giornalistica, sì, sì…). Non l’ha difesa neppure Ghizzoni di Unicredit che non si è subito precipitato a smentire, come ci si sarebbe aspettati da lui.
Ora, se c’è una cosa da sottolineare è che Ferruccio De Bortoli è un giornalista di quelli seri e con la schiena dritta. Per questo si fa vanto delle tante querele ricevute: perché gli dànno, a suo dire, la possibilità di difendere quello che scrivve nelle aule di giustizia, in un contesto pubblico e in un pubblico dibattimento. Chapeau.
Ora, perché non si verifichi la fattispecie di reato (o, se si vuole, il danno civile) di diffamazione nei confronti della Boschi, bisogna per prima cosa che quanto affermato da De Bortoli sia vero. E qui non siamo in un caso come quello della Madia in cui basta pubblicare per rendersi conto. Qui bisogna fidarsi delle fonti. E De Bortoli dice di averne di inoppugnabili e incontestabili. E di De Bortoli, lo ripeto, c’è da fidarsi. Ma allora viene da chiedersi perché la Boschi non l’abbia ancora querelato e, nel caso, chi avrebbe querelato al posto suo. La querela, in questo caso, resta comunque l’unica (e, comunque, sempre più debole) arma di difesa in un caso del genere. Perché delle due l’una, o quella rivelazione è vera o è falsa. Se è falsa hai ragione tu che hai querelato, se è vera hai torto, a meno che De Bortoli, nel rivelare quelle circostanze, sia trasceso da quella che è la “continenza verbale”, fatti salvi il suo diritto di critica e anche di satira che sono sacrosanti. Ma De Bortoli è giornalista di lungo corso e queste cose le sa, non si sputtana certo con una battutina di gusto mediocre.
E per la prima volta la querela diventerebbe un mezzo per fare chiarezza, non per mettere una pietra tombale sulla voce di chi, semplicemente, per mestiere o per vizio, denuncia che il Re è nudo. Proprio perché non ci sono prove in un senso o nell’altro. E allora, finalmente, saprem(m)o. O forse mai.
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Alla fine la brutta norma con un bel nome è passata anche alla Camera dei Deputati e si accinge (speriamo con un po’ di disgusto) a diventare legge dello Stato.
Hanno aspettato l’estate, quando in piazza poteva esserci tutt’al più un manipolo di insegnanti agguerriti e col dente avvelenato, ma poca, pochissima roba rispetto allo sciopero unitario del maggio scorso.
Al Senato, se possibile, era andata perfino peggio: avevano messo la fiducia, strumento di prevaricazione sul Parlamento, di per far passare la figura del preside plenipotenziario e onnipotente e per cancellare dalla faccia della terra le graduatorie, che erano l’unico mezzo di garanzia di trasparenza che potesse esistere. Certo, perfettibile ma efficiente.
PAsseranno ancora molti, moltissimi anni, prima che un governo onesto si renda conto della dannosità che i suoi predecessori hanno reso legge e corra ai ripari.
Per ora, mutande di bandone e faccia di ghisa, perché non farà mai troppo male.
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Viene dalla Oxford University Press la nuova idea ecumenica.
D’ora innanzi, i suoi disegnatori per i libri di testo, non potranno più disegnare suini nelle loro tavole, per non offendere la sensibilità dei bambini ebrei e musulmani. Ci rimette Peppa Pig, insomma. Ma anche i tre porcellini, che sono dei dritti e gliela fanno vedere loro al lupo cattivo.
Si teme già che i cattolici vogliano contrattaccare con l’eliminazione di Geppo, il diavolo buono, dal ricordo di una intera generazione (quella che leggeva i giornalini di serie B, appunto), che i vegetariani vogliano cancellare Poldo dagli albi di Braccio di Ferro che invece è un ganzo perché mangia spinaci. C’è anche qualche associazione pacifista che ce l’ha a morte con Nonna Abelarda perché tira sganassoni.
Ora ci manca solo qualcuno che voglia eliminare i pisani dal Vernacoliere.
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E’ fin troppo facile munirsi dell’hastag #JeSuisCharlie e campeggiare con un centoquarantacaratteri su Twitter. E’ anche fin troppo facile scendere in piazza a protestare con la stessa scritta stampata su un foglio A4 e ostentata sopra le testa ad altezza selfie e una matita in mano. Resta comunque da osservare che i francesi in piazza ci scendono e gli italiani no.
Scontato anche dire che quello perpetrato contro Charlie Hebdo sia in realtà un attentato alla libertà di espressione e a quelle di critica e di satira, che ne derivano: è una realtà fin troppo evidente.
Molto più difficile, per non dire impossibile, è ammettere che i primi nemici della libertà di espressione siamo noi stessi, terroristi primigeni di ogni vignettismo.
Siamo noi che appena arriviamo in rete e leggiamo una cazzata non ci fermiamo a constatare il fatto che la presenza di cazzate in rete è l’espressione di quella stessa libertà che rivendichiamo per noi. Anzi, ci sentiamo in diritto e in dovere di dire non solo che quello che leggiamo con ci piace (perché fin qui…) ma che chi l’ha detto o scritto è un imbecille e che non dovrebbe usare lo spazio che gli viene messo a disposizione in quel modo. Siamo noi che scriviamo su Facebook frasi deliranti come “Se sei d’accordo dillo, se non sei d’accordo stai zitto” (alla faccia del diritto di critica, n’est-ce pas?) oppure “Come ti permetti di scrivere queste cose sulla MIA bacheca Facebook?” (la bacheca non è affatto tua, coglione, te la offre Facebook perché tu ci faccia quello che ci vuole LUI, non tu). Siamo noi che litighiamo per un tweet (una volta uno scrittore che sta ottenendo un discreto -ma a mio giudizio immeritato- successo voleva a tutti i costi il mio numero di telefono per litigare di persona) o per un post di un blog (avete mai provato a dire che la musica della “Canzone dell’amore perduto” di De André non è sua ma di Telemann? Ecco, io sì.)
Per noi un’opinione diversa non è e non resta un’opinione. Diventa, inevitabilmente, una polemica quando va bene, un’ingiuria ad personam quando va così e così e come una vera e propria ignominia nel peggiore dei casi.
Un esempio: la figlia di Pino Daniele ha “postato” su Facebook un pensiero in ricordo di suo padre. Tra i 700 e passa commenti ce n’era almeno uno che rimproverava a questa ragazza il fatto che avrebbe dovuto starsene a piangere riservatamente anziché esternare i suoi sentimenti sul social network.
E va beh, sì, magari avrebbe anche potuto, ma se se la sentiva di fare diversamente cosa facciamo, la fuciliamo in piazza come nemica del popolo? Vogliamo sindacare perfino su come una persona gestisce il suo dolore, cioè qualcosa di personale, intoccabile, dato sensibile per eccellenza. Figuriamoci se non ci occupiamo delle opinioni.
Esisterà sempre chi batte i denti, chi prende il ritmo e ci balla sopra. Così come chi sarà disposto a sparare sul ballerino: gli stessi che oggi si nascondono dietro a un tweet.
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E’ deciso. WhatsApp implementerà la “ricevuta di ritorno” obbligatoria. Da qui a breve gli utenti che inviano un messaggio visualizzeranno un doppio segno di spunta colorato di blu che indicherà l’ora in cui quel messaggio è stato letto.
Fino ad ora si poteva contare su un segno di spunta singolo di colore grigio quando il messaggio veniva mandato al server, e un doppio segno di spunta, sempre grigio, quando il messaggio veniva inviato dal server al telefono del destinatario. Che non voleva dire “il messaggio è stato letto” ma, appunto, “guarda, coglione, che il tuo messaggio non è più residente sul server”. Punto. Finita lì.
Ora, invece, chi manda un messaggio saprà con esattezza quando il destinatario lo ha letto. E ‘sti cazzi?
No, voglio dire, cosa gliene frega a chi mi scrive di quando lo leggo e, soprattutto, SE lo leggo? Ma saranno affari miei?
Chi mi manda una raccomandata può sapere, tutt’al più, quando il postino me la consegna, non quando io ne ho preso visione.
E’ la fine di un’era. Fino ad ora gli innamorati potevano contare sul fatto che “Gli ho mandato un messaggio, sarà già un quarto d’ora (eh, un tempo eonico, notoriamente) e lui non mi risponde, tu cosa ne dici?” e l’amica “Mah, magari non l’ha letto!” Che, voglio dire, era un consiglio saggio, che rifletteva una possibilità reale.
Ora invece tutti sapranno tutto di cosa leggi e cosa no, e gli stalker avranno vita facile con le loro vittime (ormai gli SMS non si usano più). Sapranno in tempo reale se la loro azione persecutoria sia andata o meno a buon fine e continueranno con ancora più veemenza (vadano a dare via il culo, altro che messaggini persecutori!).
Dunque, tutti, tra poco, avremo su WhatsApp questa opzione senza averla espressamente chiesta e, soprattutto, senza la possibilità di disattivarla (seeeeeh, sarebbe troppo semplice!), il che è assai antipatico soprattutto per chi WhatsApp lo paga e lo paga perché gli sta bene così com’è ora.
Soluzioni: si può NON usare WhatsApp e affidarsi a delle alternative meno invasive come Viber. Oppure si può continuare a usare WhatsApp e quando ci dicono “Ma come mai non mi hai risposto? Eppure hai ricevuto il mio messaggio alle XX.YY!” controbattere con un plateale “Non ti ho risposto perché non ti ho VOLUTO rispondere, e non sono sono tenuto a spiegare a TE se ero in bagno o se stavo per andare sotto la doccia, problemi?”
E gliele farei passa’ io le ruzze!
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Abbiamo appreso che il GUP ha ordinato l’archiviazione della causa che vedeva Laura Boldrini coinvolta per il volo di Stato in Sud Africa (in occasione dei funerali di Nelson Mandela) “aperto” anche al suo fidanzato. Non sarebbero ravvisabili fattispecie di rilevanza penale. Dunque, giustamente, si archivi.
Bene. E allora?
C’è proprio bisogno che sussista una fattispecie penale per considerare un comportamento quanto meno criticabile? Ci sono decine di comportamenti quotidiani che sono ampiamente censurabili pur non costituendo illecito penale. Che so, sputare per terra, mettersi le dita nel naso al semaforo, fumare nella sala d’aspetto di un medico, ruttare in presenza di una signora, tirare una sequela di parolacce in Chiesa e via a riempire.
Portare il proprio fidanzato su un volo di Stato, per un’alta carica, è, dunque, certamente lecito. Ma “lecito” non vuol dire “etico”, “giusto”, “auspicabile”. E’ pur vero che il fidanzato in questione non ha approfittato di nessun fondo pubblico, in fondo un volo di Stato costa un Tot, sia che ci vada una sola persona, sia che l’aereo sia pieno, e se avanza un posto non c’è nulla di male a farci salire un congiunto affettivo. Non c’è nulla di male, dicevo, ma cosa c’è di bene?? Non sarebbe stato meglio che il signor fidanzato di Laura Boldrini viaggiasse COMUNQUE con un volo di linea, come avrebbe fatto qualunque altro cittadino, perché è questo che è, un cittadino come tutti gli altri? I soldini per permettersi un biglietto aereo a Johannesburg non credo proprio che manchino alla coppia, dunque perché esporsi alle critiche, alla ferocia dei media e financo a una causa penale? Non sarebbe stato preferibile un titolo come “Il fidanzato di Laura Boldrini viaggia in seconda classe a sue spese” anziché quelli insinuanti e provocatòri che certa stampa ha divulgato?
Che cosa si è voluto leggere in quella sentenza? (1) Che veniva legittimato un legame affettivo ricondotto alla stregua di un legame burocraticamente stabilito? Ovvero, che una coppia di fidanzati, a livello di dignità di rappresentanza istituzionale, equivale a una coppia regolarmente unita in matrimonio? Se è davvero questo quello che certe letture della sentenza intendono sottolineare è proprio pochino. La signora Boldrini è liberissima di avere le relazioni che vuole con chi vuole e nel modo che ritiene più opportuno per la sua vita. Punto. Non c’è altro e nessuno è qui a negarglielo. Troppo comodo gridare alla discriminazione sessista quando si tratta di diritti elementari della persona. Ma santo cielo, ci sono migliaia e migliaia di altre coppie che vivono nel cosiddetto “more uxorio” e che non hanno nemmeno il diritto di reversibilità della pensione di poche centinaia di euro se uno dei due muore, figuriamoci ad avere accesso a un volo di Stato. E’ un riconoscimento forzato a ciò che lo Stato non riconosce (non ancora) e c’è gente che ne soffre le pene dell’inferno, altro che Sud Africa!
E allora quella che viene definita una “vittoria” è solo mera ordinarietà. Oltre il penale c’è di più.
(1) Mi riferisco all’articolo del blogger Dario Accolla intitolato “Sessismo, una questione all’italiana: Boldrini, l’aereo e il compagno” (Il Fatto Quotidiano) con cui sono in totale disaccordo.
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E’ un po’ di tempo che non faccio “outing”.
Quindi dichiaro davanti a persone di specchiate fede e moralità quali reputo i lettori del mio blog, che io guardo “Chi l’ha visto?” il mercoledì su RAI3 e anche “Quarto grado” il venerdì su Rete Quattro. E’ l’unica coincessione che faccio ai canali di Berlusconi ma lo guardo.
Mi piacciono questi programmi che vanno a rimestare nel torbido e che per farlo hanno bisogno della qualifica di “televisione di servizio”. Sono letteratura, non televisione. Letteratura di genere “minore”, certo, come erano i romanzi di Carolina Invernizio o i racconti di cappa e spada, come il giallo Mondadori comprato ogni due settimane all’edicola. O come “Urania”. O “Segretissimo”. O “Il giallo dei ragazzi”, per chi se lo ricorda (e ci vuole una memoria di molibdeno tungstenato a ricordarselo).
Il genere è quello del romanzo popolare. La quotidianità si fa racconto, e allora è avvincente anche quando viene ricostruita decine e decine di volte (si veda il caso, perché non esistono risvolti giudiziari consistenti).
Il caso di Elena Ceste è stato sviscerato fino all’inverosimile. Oggi il marito è stato raggiunto da un avviso di garanzia per omicidio volontario (non si sa se anche per occultamento di cadavere). Il cadavere, o quel poco che ne restava, è stato trovato giorni fa.
Mi aveva sempre colpito la religiosità di questa donna che ha fatto quattro figli e che ora rischiano di trovarsi, oltre che senza madre, anche senza padre. Una religiosità che semprava costituire una zavorra al suo poter vivere in maniera libera. Quasi sicuramente questa donna aveva tradito il marito, e il senso di colpa ha fatto sì che o lei si suicidasse o che venisse ammazzata. Ed è il senso della “vergogna”, del “peccato” a farla da padrone. Come se non dovesse/potesse esserci anche un senso del “perdono” da parte di un marito che, se la sera del litigio non si fosse messo a guardare “Don Matteo” alla televisione, magari avrebbe fatto meglio. E’ morta nuda perché la nudità è lo stato in cui l’uomo e la donna furono cacciati dall’Eden, dopo aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (boia come sono ganzo!). Aveva chattato su Facebook (mal gliene incolse!), aveva ritrovato persone che aveva conosciuto, aveva approfondito la conoscenza, magari aveva anche consumato qualche rapporto sessuale con una o più di queste persone, ma ci sono tante cose, in primo luogo il perdono e, nel caso, la separazione e il divorzio. Ma per chi ha una vita di fede questi non sono rimedi a cui ricorrere, sono marchi di infamia, sono stigmi. E allora si va a morire, nudi, per aggiungere vergogna a vergogna e per farla finita con quello che si è vissuto come un’onta incancellabile.
Bella storia, sì. Poi magari vi parlo anche di Roberta Ragusa.
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Questo signore che ha 70 anni ben portati, dal viso pulito e gentile si chiama Enrico Tranfa, presidente della seconda sezione penale in Corte d’Appello a Milano.
Ha presieduto il collegio giudicante che ha assolto Berlusconi nel caso Ruby. Solo che lui era contrario all’assoluzione. La decisione, infatti, è stata presa a maggioranza. Erano favorevoli gli altri due componenti.
Allora lui che ha fatto? Ha letto la sentenza di assoluzione come era suo dovere anche se non era d’accordo. Ha steso le motivazioni, come era suo dovere, anche se non era d’accordo. Poi ha depositato la sentenza su cui non era d’accordo, come era suo dovere. E il giorno dopo si è dimesso. Ha appeso la toga al chiodo e ha annunciato che si godrà qualche viaggio in giro per il mondo. Fine del discorso.
E mentre cala il sipario sulla carriera brillante di un uomo onesto, non si può che pensare al primo libro di Giorgio Fontana, “Per legge superiore”, che sembra un canovaccio di fantasia di quello a cui abbiamo assistito nella realtà. Leggetelo, e come diceva il De Amicis, “io credo che vi farà un gran bene” (peccatori!)
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Quando scopri una “bufala” in rete ti senti tanto Paolo Attivissimo e ti vien voglia di far come lui, di scrivere, scrivere, scrivere, pubblicare, puntualizzare, correggere, cazzo quanto scrive quell’uomo!
Che poi non è mica detto che qualcun altro le stesse cose non le abbia scoperte prima di me, però sì, ve lo devo confessare, mi sento proprio un bel ganzo.
La notizia sarebbe stata la seguente: il reato di bestemmia è stato reintrodotto dalla Corte di Giustizia (majuscolo, mi raccomando, così fa più effetto), si rischierà una pena da 3 a 6 anni di carcere e una multa.
Perché è una bufala:
a) la bestemmia non è “reintrodotta”, ma esiste già un illecito amministrativo (così depenalizzato dalla legge 25 giugno 1999, n. 205) che la sanziona, all’art. 724 del codice penale: «Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la sanzione amministrativa da euro 51 a euro 309. […] La stessa sanzione si applica a chi compie qualsiasi pubblica manifestazione oltraggiosa verso i defunti.»
b) non esiste nessuna Corte di Giustizia in Italia. Esistono la Corte di Cassazione, la Corte dei Conti, la Corte Costituzionale. Ma la Corte di Giustizia no.
c) la pena sarebbe decisamente spropositata rispetto al tipo di reato commesso. Per una Porca si rischierebbe l’interdizione dai pubblici uffici e l’impossibilità di accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali (per cui paradossalmente Berlusconi sì e il più incallito bestemmiator de’ santi no).
Invece 100-150 euro di sanzione possono essere un prezzo più che accettabile per chi, come il Poeta, è “solo qui, alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, ho voglia di bestemmiare“.
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C’è quel luogo comune che dice che “le sentenze si rispettano“. Che è un po’ come dire che non ci sono più le mezze stagioni o che la frutta non ha più lo stesso sapore, cioè tutto e nulla. Ma, soprattutto, nulla.
De Magistris, ex magistrato, ora sindaco di Napoli, è stato condannato in primo grado a 15 mesi di reclusione per abuso d’ufficio. E’ stata anche disposta l’interdizione dai pubblici uffici per un anno e una provvisionale complessiva di 20.000 euro alle parti civili. Sia la pena principare che quella accessoria sono state sospese.
Non mi interessa se De Magistris sia colpevole o innocente, deve dimettersi, e subito.
La prima e più diretta ragione che mi viene in mente è che è stato condannato all’interdizione dai pubblici uffici, e anche se il reato per cui è stato punito non ha nulla a che vedere con la sua carriera politica di sindaco, riguarda comunque quella di magistrato, quindi si tratta di fatti verificatisi nel suo rapporto con la pubblica amministrazione. Ed è questo quello che non va. Non è stato processato per aver comprato una stecca di sigarette di contrabbando, ma per il modo in cui ha gestito la sua funzione pubblica. Se un insegnante compra un CD tarocco da un marocchino e lo processano, pur se condannato potrebbe non rischiare il posto di lavoro. Ma se corregge il registro con la scolorina e mette un 5 dove sotto c’era un 6 (magari perché ha sbagliato) commette un falso in un atto pubblico.
La legge Severino che prevede la sospensione dell’imputato dalla carica di sindaco, con un atto del Prefetto, è in vigore e pienamente operante. Che piaccia o no. De Magistris ha ribadito: «Vorrebbero applicare per me la sospensione breve, in base alla legge Severino, un ex ministro della Giustizia che guarda caso è difensore della mia controparte nel processo a Roma. E la norma è stata approvata mentre il processo era in corso.» Sì, va beh, e allora?? Di chi sia difensore la Severino non mi pare abbia poi tutta questa importanza, il fatto che la norma sia stata approvata mentre il processo era in corso (da quanto tempo?) ne ha ancor meno, perché la funzione delle Camere è/sarebbe quella di legiferare sempre, non quando c’è il sole o quando i parlamentari si svegliano col piedino giusto, o hanno fatto sesso la notte precedente. E poi cosa c’entra la legge Severino con il processo penale? Non è il giudice di merito che applica la sospensione, ma il prefetto sulla base della sentenza.
De Magistris è innocente? Probabilmente sì, ma proprio per questo deve difendersi come può e dove vuole. Intanto nelle sedi opportune attendendo le motivazioni della sentenza. Poi dove gli pare. Su Twitter, su Facebook (ma questo già lo fa), sulla stampa, rilasciando interviste, tenendo conferenze stampa, ma da privato cittadino, per piacere.
E’ inutile che mi vengano a dire che “non si è colpevoli fino a sentenza definitiva passata in giudicato“, perché è una stupida torsione del dettato costituzionale.
Io faccio sempre lo stesso esempio e lo faccio anche adesso: se mia figlia ha come insegnante uno che è stato condannato in primo grado per pedofilia, lui non sarà (ancora) da considerarsi colpevole (certamente!), ma col cazzo che nel frattempo continuo a mandare mia figlia a lezione da lui!
Facciamo anche un altro esempio: Giuseppe Bossetti è in carcere, accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Non c’è stato nessun processo, anzi, siamo ancora alle fasi preliminari. C’è il suo DNA sugli indumenti della vittima, io non lo so quanti di questi falsi garantisti da competizione gli farebbero riaccompagnare la loro figlia o la loro moglie a casa, sostenendo che è innocente. Eppure nessuno l’ha ancora dichiarato colpevole neanche in primo grado.
Si difenda, dunque, De Magistris, ha ancora due gradi di giudizio per farlo. La magistratura, di cui lui faceva parte, non sarà tutta parte di quello “Stato profondamente corrotto” (se n’è accorto anche lui!), come l’ha definito. Se no rispolveriamo la vecchia ma sempre adatta a tutte le stagioni tiritera berlusconiana dei giudici politicizzati (o della politica giustizialista, ça dépend). Quei giudici che l’hanno condannato in primo grado dovranno anche dimettersi, forse avrà ragione lui, ma nel caso venisse ulteriormente condannato devono dimettersi anche quelli di secondo grado e di Cassazione?
Deve dimettersi anche per questa sconcertante dichiarazione: «Chiedo a chi ha la forza di andare avanti, a chi vuole giustizia e non legalità formale di mettercela tutta. Quando il quadro appare così confuso appare anche più chiaro chi sta lavorando per mettere le mani sulla città. Quello che dobbiamo fare è far capire ai nostri cittadini che la posta in gioco è alta, al di là di ogni distinguo». Ma non esiste la giustizia. Esiste, appunto, solo la legalità formale. De Magistris, da magistrato, sa bene che chi giudica non fa giustizia, ma applica la legge se ce ne sono i presupposti. Il concetto di giustizia, spesso è molto vicino a quello di vendetta. E’ per questo che le pene si quantificano. L’omicidio di un bambino da parte della madre grida dagli inferi la rivendicazione di una pena all’ergastolo. Eppure una madre per questo reato è stata condannata a 16 anni. Che è legalità formale (le attenuanti, le diminuenti, l’applicazione dell’indulto, delle norme del regolamento carcerario etc…) e nulla più. Ma, del resto, non abbiamo null’altro che questo. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
Ps: Leggo dal casellario giudiziale di Wikipedia: “Il 22 luglio 2013, Luigi de Magistris, il presidente della regione Campania Stefano Caldoro e il presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro vengono iscritti nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dell’America’s Cup: le accuse sono di turbativa d’asta (per la scelta del socio privato della società di scopo ACN, costituita per la prima edizione, senza rispettare le procedure di evidenza pubblica) e per abuso d’ufficio (per la trasformazione, avvenuta in occasione della seconda edizione, di ACN da societa di scopo in societa strumentale permanente).”
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Ecco, devo fare outing: io mi stupisco sempre della gente che legge il mio blog. Va bene così??
Il nostro pantagruelico (pantagruelico?) lettore Baluganti Ampelio ribatterebbe (mi par testé d’audire il suo lève favellare) dicendomi “io mi stupisco che tu ti stupisca” (o allora? gli gàrban le ridoNdaNze!), ma le cose non sono così semplici: non è che perché siccome un blog esiste ed è raggiungibile via web la gente lo debba vedere, leggere e consultare per forza. Il fatto che sia “accessibile” non implica che debba essere per forza anche “accessato”. Esistono migliaia di blog che sono fermi e parcheggiati lì, e non solo perché chi li ha aperti non si preoccupa di aggiornarli (che sarebbe il meno) ma proprio perché la gente non ci va.
Quello che mi stupisce, in primo luogo, è che, invece, la gente sul mio blog ci venga. E anche qui c’è “gente” e “gente”. Potrebbe sembrarmi perfino naturale (e in effetti lo è) che vengano a leggermi persone che conosco o che frequento. Un’amica mi disse qualche anno fa che lei la mattina apriva il computer e faceva colazione leggendo il giornale e il mio blog. La ringraziai anche se per me era (ed è tuttora) pazzesco pensare di scrivere un intervento al giorno (la scrittura sul blog ha per me ritmi assai sincopati, di cui vi parlerò in futuro).
No, ecco, chi viene sul mio blog è proprio la persona della strada, quella che non te l’aspetti. Magari quella che ci arriva per sbaglio dopo aver fatto una ricerca su Google, o quella che, per esempio vuole leggere quello che scrivo su Wikipedia (ah, i Wikipediani, se non ci fossero sarebbe meglio, ma ci sono, e cosa ci si vuol fare?) o, più semplicemente, chi vuole querelarmi. Insomma, un pubblico eterogeneo.
Questa settimana le statistiche registrano un minimo di 2194 e un massimo di 2856 visite. Son tante? Son poche? So assai, son quelle che sono. Ed evidentemente, per un blog, sono “abbastanza” per far sì che il bacino di utenza si estenda oltre la cerchia delle persone che mi conoscono. Si potrebbe fare di più?? Mah, probabilmente sì, e allora aprite un blog e fatelo voi.
Peccato, perché, ecco, ogni tanto, quando scrivo, mi càpita di pensare a come riderà il Tizio, a come se la piglierà il Caio, a quanto tempo ci metterà a telefonarmi la Sempronia. Poi però guardo i commenti da Facebook (abbiate pazienza, bisogna pur esser delle troie e smerciarsi sul marciapiede del primo social network per campare -Paolo Conte, più elegantemente, avrebbe detto “Si muore un po’ per poter vivere”) e quelli spontaneamente depositati su questa bacheca e penso a quelle personcine che si sono prese del tempo per scrivermi e per mandarmi a dire, magari, che sono una gran testa di cazzo, il che sarà anche vero, non dico di no, ma è il miracolo dell’alchimia fra il testo scritto, abbandonato ai gorgoglii delle onde del web, e l’utente finale che proprio non riesco a spiegarmi.
Ultimamente questo blog è invecchiato come me. Ci parlo sempre degli stessi argomenti. Wikipedia (per l’appunto), la diffamazione, la Boldrini, qualcuno che ogni tanto muore (o che è già morto) e di come ogni tempo passato fu migliore. Non mi sembra una plètora di argomenti vasta e particolarmente interessante. Eppure, anche così, il blog riesce a smuovere quanto meno l’amor proprio di qualcuno.
Poi dice che uno non se ne deve stupire.
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Il babbo di Matteino il Renzi, indagato (il su’ babbo, no Matteino), ha detto ai giornalisti che lui, facendo fede ad un famoso hashtag del pargolo twittante, è “sereno”.
Oggi Denis Verdini è stato rinviato a giudizio con l’ipotesi di finanziamento illecito ma si è affrettato a dichiararsi “sereno” anche lui, nel mentre che la giustizia fa il suo corso.
Tutti sotto il giogo di pubblici ministeri, giudici per le indagini preliminari e magistratura giudicante di merito, tutti pronti ad affrontare, se serve, il giudizio fino alla Cassazione, eppure son tutti sereni come un cielo blu.
Ho sempre pensato che chi si ritrova addosso anche solo un avviso di garanzia dovrebbe essere tutto men che sereno. Può essere incredulo, stizzito, incazzato, impaurito, terrorizzato, ma sereno no. Soprattutto se è effettivamente innocente rispetto a ciò di cui lo si accusa. La risposta alla domanda dei giornalisti “Come si sente dopo questo atto della magistratura?” potrebbe essere “Eh, mi cào addosso!“, non “Sono sereno!” Cazzo c’entra la serenità? Con una pendenza giudiziaria una persona onesta non ci dorme la notte. “Ha fiducia nel lavoro della magistratura??” “Ma no di certo. E’ chiaro che se hanno inquisito una persona innocente del loro lavoro c’è solo di che aver paura. Sereno io? Sereno una bella sega!”
E invece questa ostentata calma serafica, questo ridicoleggiare le accuse, questo mostrarsi al di sopra di ogni psicosomatico sciogliersi del corpo non fanno altro che alimentare la rabbia dell’opinione pubblica, la stessa che, come me, aveva lasciato l’aggettivo qualificativo “serena” attaccato a una canzone di Gilda Giuliani.
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Era un bel po’ di tempo che non parlavo più di Laura Boldrini.
Era diventata, per me, poco più di una passante che ti urta o ti pesta un piede. Ti fermi, le dici di stare più attentina la prossima volta perché guarda l’ il callo, poi riprendi la tua strada, mastichi qualche bestemmia e dopo altri tre o quattro passi ti sei già dimenticato del nome e del viso di chi si era posto impunemente in mezzo al tuo passaggio.
Invece rieccola, la Boldrini, con un tweet che denuncia la sua (personalissima, s’intende) preoccupazione per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. E lì ti càscano i diociliberi, perché la prima cosa che ti si stampa nella mente come un flash è che nel 1993 si è votato un referendum proprio sullo stesso tema e che la maggioranza degli italiani si espresse a favore della cancellazione dell’odioso prelievo politico dalle tasche dei cittadini. Successivamente l’infida consuetudine fu reintrodotta con vari nomi e nomignoli su cui è doveroso stendere un velo di pietà.
Quello su cui, no, non bisogna stendere alcun velo è il fatto che una persona che occupa un’altissima carica dello Stato dimentichi questo dato fondamentale di democrazia diretta e non si voglia piegare a un elemento evidente che deriva dall’esercizio diretto di diritti sacrosanti sanciti dalla Costituzione.
Perché la Boldrini è così contraria all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti? Semplice, perché un “sistema democratico deve garantire a tutti l’accesso alle cariche pubbliche”. Oh!
Ma il sistema è democratico proprio perché chi viene votato maggiormente ha maggiore possibilità di accesso alle cariche pubbliche, chi viene votato di meno avrà una rappresentanza minore e di controbilanciamento (altri la chiamano “opposizione”), sono secoli che funziona così e nessuno ci vede niente di strano, a parte la Boldrini che è stata candidata alla Camera con un partito che da solo non sarebbe riuscito a vedersi rappresentato e che ha dovuto coalizzarsi con il PD, ma questo inciucio le ha permesso di essere eletta allo scranno più alto di Montecitorio.
La cosa che desta particolare meraviglia non è tanto il fatto che ci si limiti a manovrare la materia del finanziamento pubblico ai partiti dalle stanze buie e polverose del palazzo (ora lo so cosa mi risponderebbe la Boldrini: “Parli per sé, nel mio ufficio non c’è nemmeno un granello di polvere!”), ma che queste esternazioni vengano scritte, così, senza pensarci troppo, magari fidando nel fatto che su Twitter uno scritto ha, solitamente, vita breve.
Ma noi abbiamo la memoria lunga
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E’ il tegame quella cosa
che ha il manico che scotta
ma se invece cià la potta
è il tegame di tu’ ma’.
(C) 11 settembre 2014
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Settembre arriva e con la prima pioggia ci lava anche il cervello. E’ incredibile come con lo sfogliare del calendario ci si formattino le sinapsi per cancellare tutto quello che fino al giorno prima ci sembrava estremamente trendy o, comunque, di un interesse tale da non poterne fare a meno.
Si cominciò con il bikini di Maria Elena Boschi, illustre costituzionalista. Ora ce ne siamo giustamente dimenticati ma fino a una quindicina di giorni fa era di vitale importanza il fatto che la Boschi avesse un bikini e che lo usasse per andare al mare. Abbiamo fatto del marginale una questione di vita, riducendo l’importanza del disfacimento del Senato della Repubblica a quella di un più dozzinale due pezzi da esibire in spiaggia con malcelato orgoglio.
La Ministra Giannini, dal canto suo, si fece beccare in topless. Al rientro dalle vacanze ha cominciato a parlare di eliminazione del precariato e di quella brutta abitudine scolastica che sono le supplenze. Come fare? Facile, si assumono 100.000 precari e il gioco è fatto. Il problema è che 100.000 assunzioni sono una goccia nel mare. Poi i neoassunti li devi anche pagare e la preraffaellita Madia ha già provveduto a congelare gli stipendi della pubblica amministrazione anche per il 2015, perché bambole, non c’è una lira. Quasi quasi era meglio quando c’era il topless.
Ci siamo, poi, del tutto dimenticati di quando la gente si tirava le secchiate d’acqua in capo per aiutare la ricerca sulla SLA. Eppure sarà stato sì e no una settimana fa che la Littizzetto, che non ha mai smesso di bastonarci lo scroto col Walter e la Jolanda ad ogni domenica che Dio mette in terra, prima di farsi l’autodoccia ha sventolato in un video due banconote da 50 euro, e poi si è lamentata che tutto il web le ha sottolineato che per quello che guadagna avrebbe potuto donare un po’ di più, il che, tra l’altro, è anche sacrosanto e vero.
Abbiamo la memoria troppo corta, un pensiero che vola e va. Io ho quasi paura che si perda.
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Ieri avevo appena messo in linea il post sulla morte di Susanna Pierucci quando mi sono accorto che era stato copiato dal sito totalnews.it.
Premetto che non sono in contrario in linea di principio ai siti e alle applicazioni aggregatori di feed RSS, visto che a qualcuno piacciono, anche se possono creare un danno penalizzando il sito originale sui motori di ricerca (ma tanto su Google si conta come il due di briscola!). Non mi interessa nemmen troppo che con la copia dei miei articoli qualcuno realizzi un provento in denaro tramite l’inserimento degli annunci di Google AdSense.
Quello che, invece, sì, mi interessa, anzi, mi fa girare profondamente i coglioni, è che se qualcuno decide di farlo non me ne chieda il permesso (quelle poche volte che è successo l’ho sempre dato) e ometta di scrivere “Tratto da valeriodistefano.com” sotto la copia del post. Siccome i mezzi per farlo ci sono, e se ce li uso io che non ci capisco nulla non vedo come non possano usarli anche gli altri.
E’ un modo di fare assai broccione quello di chi pensa che tanto se una cosa è su internet deve essere per forza di pubblico dominio, lo si possa prendere tranquillamente con il più easy-going dei modi, copia e incolla e via. Certo, ci sono dei siti in cui questo è possibile. Noi possiamo anche essere Creative Commons, ma non Creative Coglions, un paio di righe con su scritto “Senti, Canaccio Infame, ho visto il tuo blog, mi garba un casino (menzogna!) e vorrei usare i tuoi post per farmi due spiccioli in un sito che ho messo su, e bla e bla” ce le meritiamo.
E poi per cosa? Per avere un account Twitter con 257.000 post e SOLO 11 follower? Ma via…
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Domani, se Dio vuole, chiude “l’Unità”.
Un quotidiano fondato nientemeno che da Antonio Gramsci nel 1924, anche se di questa circostanza c’è solo una breve menzione sulla testata della versione cartacea on line. Nel senso che dell’autorevolezza e del coraggio di Gramsci non è stato ereditato niente, e c’è di che esser convinti che le ceneri del grande intellettuale e pensatore ribollano all’idea di patrocinare un quotidiano la cui unica aspirazione, ultimamente, era quella di negare l’evidenza e di dare adosso ai grillini, visti come origine di ogni male.
Io l’Unità, quella vera, me la ricordo. Ero piccino e la domenica se volevi passava qualcuno a distribuirlo casa per casa. Lo comprava sempre il mi’ zio Piero, che allora veniva Ugo, detto Ughino, che saliva le scale due alla volta con le ginocchia un po’ dinoccolate, la boina calcata sulle 23 e la sigaretta (Nazionali Esportazione, plisss) in bocca, e incassava il prezzo del giornale. Magari si fermava a prendere un caffè, o a fare due chiacchiere, qualche commento sulla situazione politica della settimana e intanto si parlava, ci si confrontava, si discuteva, si litigava.
Se poi uno non voleva comprarselo, c’era pur sempre il circolino dell’ARCI (a Vada si chiamava “la Pista”) che lo acquistava per gli avventori e lo metteva lì a disposizione di tutti fin dalle sette di mattina. Era un po’ palloso dover aspettare che si liberasse, e, comunque, quando entrava la bonànima di Anchise e lo voleva era buona norma lasciarglielo.
Se no c’era un altro modo per leggerlo: nelle Sezioni (altro luogo di ritrovo) o nella bacheca che il Partito Comunista aveva a disposizione in Piazza. Così ti capitava di vedere tutti i vecchietti con il collo un po’ all’insù che commentavano le notizie sulle imprese del compagno Berlinguer dopo aver sputato per terra quanche burdigone da due etti e aspirato un paio di boccate di sigaro toscano.
L’Unità era questo. E adesso? Non si parla più, non ci si incontra più, non si commenta più, non si litica più, non ci si piglia a sacrosanti cazzotti, non si beve più il corretto al sassolino al circolo Arci. No, dicono che “I liquidatori di Nuova iniziativa editoriale spa in liquidazione, società editrice de l’Unità, a seguito dell’assemblea dei soci comunicano che il giornale sospenderà le pubblicazioni e l’aggiornamento del sito web a far data dal 1° agosto 2014.”
I liquidatori?? Ma chi sono mai questi liquidatori??? Ecco perché vi dicevo che le ceneri di Gramsci si sollevano nell’urna, perché chi saranno mai questi “padroni” che hanno (o, peggio a cui è stata delegata) la possibilità di decretare addirittura la fine del giornale. Gramsci direbbe retoricamente ma giustamente che l’Unità ha un solo proprietario, il popolo.
Sì, il popolo italiano. Quello che di tasca propria, solo nel 2011 ha versato 3.709.854,50 euro per il finanziamento pubblico al quotidiano. Dico, tre milioni e settecentomila e spiccioli euro. Ma cosa cavolo ci hanno fatto con i soldi della gente se hanno permesso a dei “liquidatori” di “liquidare” una testata storica?? Tre milioni e settecentomila euro per essere lo zerbino di Renzi e la stampella sinistra editoriale del Partito Democratico (la destra, si sa, E’ quella di “Europa”, che zitta zitta prende 2.343.678,28) e per sputare veleno su Grillo? Sono anche soldi miei, e pretenderei una maggiore oculatezza nella loro amministrazione. Ma se un quotidiano non sa essere abbastanza libero dai liquidatori per potere andare avanti con i soldi della gente allora è bene che chiuda.
E infatti domani l’Unità chiude. E speriamo di poter fare qualcosa di buono almeno con quei tre milioni e passa di euro che la Nuova Iniziativa Editoriale non potrà più pretendere con la scusa di ingrassare le rotative dell’organo ufficiale del Partito Democratico.
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La notizia di questi ultimi giorni è che ogni italiano spende in media 559 euro ogni tre mesi nell’acquisto di “dispositivi”. Cioè 186,33 euro al mese, e 2236 euro l’anno.
Ogni italiano. Anche i neonati nelle incubatrici e i vecchietti ospitati dalle case di cura e di riposo.
Va detto, a scanso di equivoci, che i “dispositivi” sono quelli elettronici (TV, radio, telefonini, tablet, PC, triccheballàcche…). No, perché esistono anche i “dispositivi” intra-uterini e certo giornalismo da strilloni non ci dice che quelli stanno fuori dal computo. Ingrati.
Ho fatto il calcolo di quello che succede a casa mia: abbiamo un televisore vetusto che sta cominciando a dare cenni di cedimento perché ogni tanto l’immagine sembra passata attraverso i filtri di Instagram, ma la TV la guardiamo poco. Svariati apparecchi radio sparsi un po’ per tutto l’appartamento perché la radio, quella sì, ci piace e tanto. In camera radio e TV. La radio è un regalo di nozze, quindi ha più di 10 anni, mentre la TV era quella che usavo nel mio appartamentino da single in Veneto e di anni ne ha una dozzina. Sia io che mia moglie abbiamo da “mantenere” uno smartphone ciascuno, nel senso che una volta al mese lo ricarichiamo di 15-20 euro. Quello di mia moglie è nuovo, il mio ha già un paio d’anni. Anche il PC è vecchiotto. Almeno 5 anni. Ma con Linux riesce a funzionare ancora bene e in maniera accettabilmente veloce. Siamo lontani dai 186 euro al mese.
Siamo una famiglia anomala, non cambiamo il telefonino una volta ogni tre mesi come fa l’italiano medio, perché se no 559 euro di spesa ogni tre mesi non si spiegano. Così come non si spiega l’evidente contraddizione tra le gente cha piange miseria e si lamenta perché prende 1000 euro al mese e poi ne sputtana il 18,6% in cazzatine tecnologiche perché di comprare da mangiare, evidentemente, si può fare a meno, ma di avere l’ultimo modello con cui fotografarsi i piedi per spedire la foto su Facebook e con cui pavoneggiarsi con gli amici, mentre le bollette incalzano.
Ci meritiamo tutto quello che abbiamo, governo Renzi compreso, e molto di più.
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E ora siamo tutti più tranquilli.
Dopo che il boss è stato assolto in secondo grado nel processo per il caso Ruby, l’estate trascorre solitamente più noiosa e i condizionatori possono di nuovo andare a palla mentre le località di mare si riempono di bambini vocianti, di mamme strillanti e di metalli urlanti (questa la riconoscono in due o tre, ma mi è venuta così, estemporanea).
Dunque pare che non fosse vero un beneamato ciùfolo il castello accusatorio di primo grado, e i giudici, quelli veri, non quelli comunisti, hanno riconosciuto l’estraneità ai fatti di Berlusconi. O meglio, per un capo di accusa hanno riconosciuto che Berlusconi non è estraneo a quel fatto, ma che quel fatto non costituisce reato.
Ah, bene, come ci si sente rilassati! Ora finalmente qualcuno (Brunetta) può chiedere pubblicamente la grazia e dimenticarsi che, trattandosi di una sentenza di secondo grado, manca ancora la Cassazione prima di pronunciare definitivamente la parola “fine” sull’affaire Ruby, che se è vero come è vero che il principale imputato dell’affaire è stato assolto, c’è da metterci la mano sul fuoco che sia VERAMENTE la nipotina di Mubarak.
Lui, del resto, sapendo di non poterci più nemmen sperare sulla grazia, ha chiesto una legge che gli permetta di ricandidarsi alle elezioni e che aggiri tanto la Legge Severino quanto l’odiosa sentenza (quella sì, passata in Cassazione) che lo dichiara interdetto dai pubblici uffici per tre anni.
Fuochi di ferragosto, li chiamerebbe Battiato.
Il PD, vedendo allontanarsi per il suo principale alleato lo spettro di ben altro tipo di interdizione dai pubblici uffici, quella perpetua, facendo anche lui i conti senza l’oste rappresentato dalla Cassazione, è sicuro che ci sia la serenità necessaria per portare avanti lo sfascio istituzionale determinato dalla svendita del Senato della Repubblica con lo sconto del 75% stile remainders.
Ancnhe Wikipedia è contenta. Alla voce “Procedimenti giudiziari a carico di Silvio Berlusconi” (perché ci vuole una voce a parte) mette il caso Ruby tra i procedimenti conclusi, mentre tra i procedimenti ancora a carico del Nostro, una “diffamazione aggravata nei confronti di Antonio Di Pietro, accusato di avere ottenuto la laurea grazie ai servizi segreti” (robettina, via…) la corruzione del senatore De Gregorio (stai a guardare il capello!) e, colmo dell’ilarità, un procedimento per “corruzione in atti giudiziari in riferimento alle testimonianze rese nel procedimento “Ruby” principale”. Ci sarebbe anche il deposito, da parte della Procura della Repubblica di Napoli, di “nuovi documenti nei quali Berlusconi è indagato per il reato di finanziamento illecito ai partiti a causa di finanziamenti che sarebbero stati erogati negli anni scorsi al Movimento Italiani nel Mondo.”
L’è el dì de mort, alégher!
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Che se ne sarebbe andato, Lorin Maazel probabilmente aveva cominciato ad avvertirlo da qualche giorno, almeno da quando è stato costretto (o si è autocostretto) a rinunciare a tutti gli impegni, con un fisico indebolito ma con una mente vulcanica traboccante lava artistica e ingegno musicale.
Talento precocissimo, quasi mozartiano, Maazel ha diretto per lunghissimo tempo quel gruppo marmoreo che sono i Wiener Philarmoniker, scolpendoli fino alla perfezione mai intrisa di seriosità, ma sempre permeata di quel giocherellare con la materia musicale senza mai prendersi sul serio.
Quando poi riusciremo a capire la portata di simili perdite, magari ci sentiremo anche un po’ migliori.
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Vasco Errani è stato condannato a un anno per falso ideologico.
Si è dimesso “immediatamente”. Cioè alla fine del giudizio di secondo grado.
Dopo le sue dimissioni ha avuto intorno il corteo dei boy-scout che lo pregavano di restare al suo posto di “governatore” (bruttissima e insignificante parola per denominare un più semplice “presidente”) dell’Emilia Romagna -mentre il sindaco di Venezia per un avviso di garanzia è stato subito liquidato, sempre grazie alle contropressioni degli stessi boy-scout di cui sopra- ma lui si è appellato al suo senso dello Stato.
Lo stesso senso dello Stato che aveva dimostrato Nichi Vendola quando annunciò che si sarebbe fatto da parte in caso di condanna. E bisogna dire a parziale favore di Errani che anche lui era stato assolto in primo grado.
Ma dimettersi al momento del rinvio a giudizio non si può?? Quando si dice di voler affrontare da comune cittadino un procedimento penale a proprio carico non ci si può dimettere solo “in caso” di condanna. Errani è rimasto attaccato alla poltrona per tutto il tempo che è stato necessario per l’avviso di garanzia, l’udienza preliminare, il rinvio a giudizio, il primo grado, il secondo grado e che miseria. Oltretutto per fatti che risulterebbero in qualche modo connaturati alla propria funzione (sarebbe più da capire se avesse obliterato un biglietto usato cancellandone il timbro con la gomma).
Confida nella Cassazione? Va benissimo. Ma intanto l’Emilia Romagna va a votare. Ed è sempre troppo tardi.
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Giorgio Faletti è morto e me ne dispiace davvero.
Ero riuscito ad arrivare persino a metà del suo “Io uccido”, scaraventandolo via con viva forza perché lo ritenevo troppo inutilmente truce. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggere i suoi romanzi successivi.
Così come ho sempre guardato con debita distanza alla sua canzone-simbolo, quella “Signor Tenente” che arrivò seconda a Sanremo nel 1994, e che oggi viene osannata dall’intero web in onore della memoria del suo autore-interprete.
Se vuoi avere un buon piazzamento a Sanremo, si sa, devi parlare della mamma (da “Son tutte belle le mammme del mondo” a “Portami a ballare”) o della patria (dal grido di “Italia, di terra bella uguale non ce n’è” di Mino Reitano, alla “Vecchia canzone italiana” che cantavano Nilla Pizzi, Mario Merola, Wess, Tony Santagata e compagnia varia, senza dimenticare l’italiano che canta con l’auroradio nella mano destra (plancia estraibile) e dà il buongiorno a Dio e a Maria di Toto Cutugno.
“Signor tenente”, con una certa originalità, si inserisce in questo filone. Del resto, per partecipare a una manifestazione nazional-popolare bisogna proporre un brano altrettanto nazional-popolare. Ed è quello che ha fatto Faletti.
Non era una canzone, quella di Faletti. Era un testo recitato sopra una base musicale. Era quasi un rap ante-litteram. Il sottoposto si rivolge al superiore con tono e linguaggio quasi burocratici. E, anche qui, se c’è qualcosa che ci ricorda il brano è il Catarella di Camilleri. Tutto però cozza contro il tono tragico della circostanza narrata (l’aver appreso della strage di via D’Amelio), il carabiniere viene dipinto come un povero ignorante che non sa iniziare una frase se non ci mette la parola “minchia”. Non c’è molta differenza (se non quella del suddetto pubblico nazional-popolare) tra le forze dell’ordine di Faletti e quelle di Pier Paolo Pasolini, i cui membri erano nati da contadini e sbattuti lontano a svolgere un servizio la cui portata non era chiara a nessuno.
“Minchia”, certo, perché una canzone non poteva cominciare con “Scusi, signor tenente”, o “Senta, signor tenente”, no, ci doveva essere comunque la parola trasgressiva, ma attenzione, “minchia”, non “cazzo” (che ha lo stesso numero di sillabe e anche lo stesso significato), a voler dire che il carabiniere, oltre che sottoposto e ignorante è anche siculo. La quintessenza del luogo comune.
Però il carabiniere dice anche “abbiam montato l’autovelox”, “abbiam saputo di quel fattaccio”, “han fatto a pezzi con l’esplosivo”, dimostrando di essersi inserito molto bene in un hinterland del nord.
“E siamo qui con queste divise che tante volte ci vanno strette specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette”. Perché invece farne una macchietta con una canzone che arriva seconda a Sanremo è stato meglio?
Cazzo, signor tenente.
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C’è sempre da farsi venire un brivido quando il Ministro dell’Interno dà notizie come “Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio.”
E’ una frase che implica, certamente, il fatto che, finalmente, sia stato dato un nome a una persona che fino ad ora non lo aveva. Ma questo è tutto. Non c’è altro. Il DNA della persona fermata è “sovrapponibile” a quello trovato nel luogo del crimine, ma fino a prova contraria questa persona diventerà l’assassino di Yara Gambirasio alla fine di tre gradi di giudizio e per ora non c’è ancora neanche la convalidazione del fermo da parte del GIP.
Come abbia fatto Alfano a definirlo “l’assassino di Yara Gambirasio” (cioè colui che SICURAMENTE l’ha uccisa) desta sincera meraviglia. Hanno agito le forze dell’ordine di concerto com la magistratura inquirente, bene, d’ora in poi subentra quella giudicante per “questo efferato assassino che finalmente non è più senza volto” (sono sempre parole di Alfano).
Si è, dunque, “efferati assassini” perché si è stati arrestati. E non perché la prova provata sia stata portata in giudizio. E in un paese in cui basti un arresto per essere definiti “efferati assassini” fa paura vivere, questo è certo. Dopo mi faccio spiegare se “sovrapponibile” significa anche “coincidente”.