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Era prevedibile, Roberto Benigni, da bravo e valente trascinatore di folle qual e’, e’ tornato in TV
Ed era altrettanto prevedibile che gli italiani, una volta che un loro connazionale li trascina, lo seguano a ruota in un applauso acritico qualunque cosa dica o faccia, sia che si tratti di qualcuno che riceve il cavalierato dalla Presidenza della Repubblica, sia che si tratti di un comico che entra con un cavallo bianco alla kermesse sanremese, ricordando la pubblicità del Bagnoschiuma Vidal.
Un intervento come doveva essere, rigorosamente avulso dalla realtà e dai problemi del paese, in modo che la gente che segue il Festival non venisse distratta dalla verità e la vivesse come un elemento di contorno, poi che Benigni trascini pure le folle sull’esegesi dell’Inno di Mameli, basta che non faccia un’esegesi della sentenza di rivio a giudizio con rito immediato per Berlusconi.
Del resto Benigni ha già lavorato gratis in “Vieni via con me”, programma gestito da Endemol, di proprietà di Mediaset, assieme a Roberto Saviano che, da parte sua, pubblica per Mondadori e il cerchio si chiuderebbe lì.
Certamente non avrà ripetuto il suo gesto di magnanimità, non si sa nulla sul compenso ricevuto e sugli accordi presi per questa conferenza televisiva di storia, di metrica elementare su un testo debole, ampolloso, denso di retorica e diventato con l’uso Inno d’Italia perché sino ad allora si è pensato ad altro.
Ma certamente un operaio ci mette un bel po’ di tempo per prendere quei soldi lì.
Perché diciamocelo, l’Inno d’Italia è bruttino sia nel testo che nella musica, con tutto il rispetto verso Mameli e Novaro tant’è che i Padri Costituenti, nello stendere il testo della Costituzione, non hanno previsto di inserire un articolo in cui fosse dichiarato esplicitamente che quella composizione dovesse essere l’Inno di una Nazione.
Non dico che non contenga valori ed ideali propri del Risorgimento, momento storico in cui affondano le radici della nostra storia patria, dico semplicemente che oggi c’è di meglio.
E allora Benigni che fa l’esegesi (no, dico, l’esegesi) di un testo simile, anziché evidenziarne gli indubbi limiti formali, il linguaggio ridondante e pomposo, arriva a cavallo di un caval (ricordate “arrivano i nostri con in testa il General?”) e comincia a grondare retorica anche lui, ci mette, insomma il carico da undici.
Il suo monologo è pieno zeppo di aggettivi come “immenso”, “eroico”, “epico”, “solenne”, “memorabile” ma soprattutto “impressionante”.
Sembra il linguaggio del De Amicis, più che di un comico.
E viene da dire che se Benigni usa tutta questa iperbole lessicale per gonfiare quello che, necessariamente, non ha e non può avere una consistenza, il Governo italiano che definisce le proprie riforme come “epocali” diventa un po’ come uno studentello delle elementari che comincia a prendere confidenza con il concetto degli aggettivi.
E via di esaltazione del popolo italiano: “noi siamo un popolo solenne, memorabile” (abbiamo tenuto vent’anni un dittatore al potere, immaginiamoci la solennità!) ” “Garibaldi era un mito” (e va beh!) e “il razzismo è la follia” (ah sì? pensavo fosse indice di intelligenza pura, meno male che Benigni ce lo ha detto, se no non avremmo saputo dove andare a prendere l’informazione).
Fino a dirne veramente di imbarazzanti:
“Nessun altro luogo nel mondo ha avuto un’avventura impressionante, scandalosamente bella come la città di Roma… non c’è un’avventura così straordinaria…”
E’ la cecità del patriottismo, perché imperi come quello egizio, come quelli delle grandi civiltà precolombiane Benigni li piglia di tacco, se non ci fossero stati gli arabi a portare i numeri, l’algebra, il calcolo e lo zero a quest’ora eravamo ancora a fare i conti col pallottoliere di pietra. I greci non ci hanno insegnato un accidente, Ulisse era un dilettante, si sa…
E perfino:
“Allegro, una parola che non è traducibile in nessuna lingua del mondo” e qui c’è da chiedersi se Benigni fosse veramente convinto di quello che diceva, perché, guarda caso, i tedeschi hanno l’aggettivo “froh” per “allegro, felice”, da cui deriva la parola “Freude”, ovvero “gioia”, quella che compare nell’Inno alla Gioia di Schiller musicato da Beethoven, diventato Inno (a sua volta, sì) dell’Unità Europea.
E allora cos’è che non è traducibile? E’ talmente traducibile che la sostituiamo tranquillamente con il corrispondente inglese “Happy” (in espressioni come “Happy Hour” etc…), perché siamo un popolo talmente “solenne” che facciamo a pezzi anche la nostra lingua.
E’ vero solo in parte. Quello musicale è un linguaggio chiaramente settoriale e neanche pedissequamente seguito da musicisti di lingua tedesca.
Lo stesso Bach fa le annotazioni in tedesco e in italiano, spesso in modo strettamente dipendente dalle esigenze pratiche della Corte in cui si trovava ad operare.
Spesso era una questione di coerenza (se un melodramma, ad esempio, era in italiano, lo erano anche le notazioni, se era in tedesco ci si adeguava di conseguenza, come accade con Mozart), ma musicisti come Bruckner usano sia l’italiano che il tedesco, e traducono “Allegro” con “feierlich” (ad esempio). Tra gli altri musicisti che usano il tedesco al posto dell’italiano ci sono Beethoven e Mahler.
Che non erano esattamente dei fantasiosi saltimbanchi.
E a proposito dell’italiano, dice più tardi: “meglio che ci levino tutto il mondo ma la lingua no!” A parte il fatto che ce la togliamo dai piedi noi stessi e che nessuno l’italiano ce lo tocca perché a nessuno interessa, ma è un concetto vecchio di decenni. C’era arrivato molto prima il poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta quando scrive “Un popolu diventa poveru e servu quanno ci arrubbanu a lingua” solo che Ignazio Buttitta non lo conosce nessuno e c’è da occuparsi del povero Mameli.
Già, il povero Mameli, quello che Benigni definisce “il vostro fratello più piccino, Mameli morto per un’infezione a 20 anni e sei mesi circa”.
E no, questa non gliela passo. Anzi, mi ci arrabbio persino, perché il fratello di mio nonno (quello “più piccino” come dice Benigni) si è beccato una delle prime palle degli austriaci durante la Prima Guerra Mondiale, aveva appena 18 anni ed è morto andando a marciare con quell’inno.
Anzi, a distanza di 100 anni risulta ancora ufficialmente disperso.
E Benigni viene a pontificare sul fratello più piccino? Dal palco di Sanremo?? Un po’ di rispetto, e che diamine, perché gli eroi son tutti giovani e belli, sì ma di molti di loro ci si dimentica volentieri.
“Non mi fate infervorare troppo se no divento ridicolo”. Ecco, per fortuna esiste ancora il beneficio del dubbio.
Il tutto mentre Al Bano interpretava a modo suo il “Va’ Pensiero” dal Nabucco di Verdi (cioè un capolavoro di un risorgimentale vero), mentre Anna Oxa faceva coriandoli dello spartito di “‘O sole mio” e qualcun altro ridicolizzava “Here’s to you” (che è un motivo di Ennio Morricone, quindi italianissimo) rendendolo ballabile. Vi rendete conto? Si ballava sulle note dedicate a due italiani del valore di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Ecco, si dovrebbe fare l’esegesi degli scritti di Vanzetti che, condannato a morte da innocente scriveva:
“Dov’è il progresso spirituale che avremmo raggiunto in seguito alla guerra? Dov’è la sicurezza di vita, la sicurezza delle cose che possediamo per le nostre necessità? Dov’è il rispetto per la vita umana? Dove sono il rispetto e l’ammirazione per la dignità e la bontà della natura umana? Mai come oggi, prima della guerra, si sono avuti tanti delitti, tanta corruzione, tanta degenerazione.”
E c’era di che spegnere immediatamente la televisione, e invece no, applausi, ovazioni, commozione collettiva per questa lezione di storia.
Ma perché non ci si commuove per il fatto che la storia nella scuola pubblica si insegna per sole due ore la settimana?
Come diceva Fabrizio De André: “per stupire mezz’ora basta un libro di storia”. Benigni lo sa benissimo.
Ed è riuscito a stupire solo chi è stato disposto a farsi stupire, scambiando una serata televisiva che mi pare tutto sommato discutibile per un esempio di altissimo valore patriottico.
Sei solo un povero pirla ignorante! mi fai veramente tenerezza. RIDICOLO